Pensieri, parole, opere e omissioni di una scrittrice in erba,
una copywriter freelance in tempo di crisi, una spiantata trapiantata a Lecco.
A Christmas Carol. Due fratelli.
Seduti ad un tavolo di cristallo.
In mezzo ai loro sguardi che giocano a squash, una bottiglia di Barolo.
Nel mobile, molto altro vino li aspetta, per una scommessa.
Hanno scommesso che uno di loro quella notte sboccherà. A costo di finire tutto il vino che c’è in casa.
Hanno scommesso quattro pizze. Ma, probabilmente, anche qualcosina in più. Tipo: il predominio.
Sono tutti e due ubriachi. Uno più, uno meno.
Il minore è quello più: blatera, straparla in vino veritas. Dice quello che più gli viene dal cuore senza freni inibitori e senza remore: “Non devi parlare finché io non smetto di parlare. Io ti metto a letto che tu neanche te ne accorgi.”
C’è una lotta. Intestinale, subconscia, clandestina.
“Io ti metto a letto quando voglio”, ripete.
Il maggiore risponde “Vediamo” e in testa c’ha solo vincere la scommessa e bersi un bel Barolo, che ormai è stato aperto da suo fratello in un impeto di ubriacatura.
In risposta il fratello più piccolo e più ubriaco sbraita: “Ma guardala là, quella”, indicando la morosa che è collassata sul divano, “io non c’ho sostegno morale”.
Due bicchieri e una quantità innumerabile di stronzate dopo, imita la fidanzata, e crolla a terra. Per una qualche decina di secondi si pensa al peggio. Ha ceduto.
Meno tre, meno due, meno uno. Il fratello al tappeto non si rialza, ha perso, no, come non detto, si riscuote, ha un inaspettato impeto di vita, parla perfino: “Io ti mando a letto te, cosa credi?”
Si rialza e chiede di aprire una seconda bottiglia. È ancora in gioco, può ancora farcela. Poi l’altro in questi secondi ha continuato a bere…
Si passano in rassegna le varie annate e etichette della mini-cantinetta del mobile del soggiorno. Si sta per decidere la bottiglia, quando il fratellino più ubriaco si alza verde in faccia facendo strane smorfie con la bocca. Va di là e si sente distintamente rumore di vomito.
Il meno ubriaco trionfa, è il più grande. “Lo sapevo. L’ho fatto per dimostrargli che non deve scommettere, soprattutto quando non è sicuro, che non deve buttare un Barolo.” Ma l’altro torna al tavolo. E ricomincia subito: “Tu hai vinto, allora io mi lascio andare.”
“Il tuo subconscio sta prendendo piede” fa il meno ubriaco, che vista la frase pronunciata sta evidentemente raggiungendo il tasso alcolico del fratellino. Cerca di convincerlo a non continuare.
“Adesso andiamo a letto, M.?”
“Mmm.”
“Non dovevi scommettere M.”
“Mm. Cos’è che ti devo?”
“Quattro pizze. E in più hai buttato un Barolo.”
“C’hai ragione D.”
“Andiamo a letto M.?”
M. non risponde. Già dorme.
Ascendente in caduta libera.
Ieri, nel fare il calcolo del mio ascendente online, il verdetto è stato “Bilancia” e “sfrenata egopatica”.
A. Egopatica. E pensare per quanti anni ho cercato questa parola.
B. E io che credevo di essere solo ossessivo-compulsiva.
C. Finalmente posso andare da uno psichiatra con le idee chiare.
D. Devo dirlo a mia sorella. Sarà contenta di avere una definizione puntuale con la quale insultarmi.
E. Ho fatto il calcolo. Anche mia sorella è Bilancia.
F. Sarà contagioso?
G. Sarà mortale?
H. Mmm… egopatica… cioè malata di sé… 28 orizzontale! Erano mesi che cercavo di finire quel cruciverba.
I. Ma un ascendente Bilancia non dovrebbe essere una persona equilibrata?
J. Sono un talento strappato alla satira. Sono troppo spiritosa. Sono di un umorismo sottile, arguto, pungente. Sono, sono… egopatica.
Sorpresa sorpresa.
Saggezza teutonica.
Ein kleines Gedicht von einem Wicht.
Es ist weise und bringt Gleichgewicht:
Überlass es der Zeit
Erscheint dir etwas unerhört,
Bist du tiefsten Herzens empört,
Bäume nicht auf, versuch's nicht mit Streit,
Berühr es nicht, überlass es der Zeit.
Am ersten Tage wirst du feige dich schelten,
Am zweiten lässt du dein Schweigen schon gelten,
Am dritten hast du's überwunden,
Alles ist wichtig nur auf Stunden,
Ärger ist Zehrer und Lebensvergifter,
Zeit ist Balsam und Friedensstifter.
Theodor Fontane
Io l'ho tradotta così:
Una poesia piccoletta,
da un folletto.
È così saggia, che dell'equilibrio
essa ti porta la ricetta.
Dovesse succederti qualcosa di inaudito,
fossi indignato nel profondo del cuor,
non irritarti, non tentar con lo scontro,
non toccar niente, abbandona tutto al tempo.
Il primo giorno condannerai la tua viltà,
il secondo lascerai valere il tuo silenzio,
il terzo l'avrai superata;
tutto è importante solo per ore,
la rabbia consuma e avvelena la vita,
il tempo è balsamo e fonda la pace.
Come dire, un'ode alla rassegnazione, all'inerzia, al fatalismo, alla pazienza cristiana. Non è da me vero? Infatti non sono mica tanto in me.
Non è che non c'ho voglia di scrivere sul blog...
Venite a me.
È gradita la presenza di bambini, adulti e parenti e amici che non vedo da una vita.
60, 65, 70 o 80mila?
Uno c'era di sicuro: io! Che meraviglia.
Da casa mia.
A casa mia
andiamo sempre tutti via.
Nessuno resta. Non so se sia
perché siamo emigranti dentro o checchessia,
ma di sicuro ho detto più buon viaggio, chiama quando arrivi, a presto
che bentrovato o benvenuto, in vita mia.
A casa mia si scappa,
si va lontano, si dice scendere e salire;
sarà perché non abbiamo mai saputo
qual è l'andare e qual'è tornare.
A casa mia non siamo gamberi,
siamo uccelli migratori.
Non siamo stelle, ma meteoriti.
Siamo distanti, sparpagliati,
siamo evasori.
Siamo rifugiati politici.
Che poi da dove scappiamo?
Da casa mia.
Che poi nessuno sa neanche dove sia.
Un po' la cerco,
la cerchiamo tutti,
mentre fuggiamo l'un dall'altro
e l'un con l'altro,
mentre abbracciamo i pupazzi,
mentre guardiamo le foto,
e ci manchiamo mentre stiamo assieme a terzi.
E io stanotte vorrei paralizzarci.
Offresi Scheggia.
E lo abbandonerò sullo scaffale di una libreria.
Se desiderate adottarlo, vi consiglio di andare subito alla sua ricerca.
Segni di riconoscimento: il neonato è iperattivo, reca sulla fronte un gigantesco bernoccolo, e trovasi avvolto in una bella copertina:
Amo la vitua.
La vitua è meglio della vacanza. Molto meglio. Perché la vacanza è negativa, è pur sempre un lavoro. Sia che tu viaggi, sia che tu stia a casa, la vacanza è una sbatta. Richiede impegno, un sacco di impegno, per riuscire a far tutto in quel fottuto agognato weekend. O quei 14 striminziti giorni d'agosto.
Invece la vitua è diversa. È proprio una parentesi – rosa, tra le parole m'amo.
Da quando sono in vitua non ci sono, non esisto, nessuno mi calcola. Nessuno mi affibbia un lavoro, nessuno mi mette nell'elenco degli invitati. Non mi sveglio presto, non esco per l'aperitivo. Non devo cercare gli amici, guardo l'e-mail per poi richiuderla. Non vado in palestra, non salgo e scendo dai treni, non preparo e disfaccio valigie, non penso alla lista della spesa o a cosa mettermi o al giorno dopo, non so manco che giorno è.
Sono come morta, ma sono viva più di prima.
È la vitua: il tempo mi ha messo in aspettativa. Devo solo ricordarmi di prendere la medicina, e in cambio posso vedere la luce del sole, guardare dalla finestra per strada quelli che non fanno nulla come me, se esco per andare dal dottore posso buttar l'occhio su una vetrina.
È una pacchia esser malati. Malati non come i vecchietti che incontro al centro analisi o in radiologia; malati come me, cioè poco*. E quel poco che c'ho non si sa cos'è. Così non devo neppure stare a preoccuparmi.
Passerà anche quel poco, purtroppo, finiranno questi 10 insperati giorni di sospensione spazio-temporale, ma pazienza. Oggi è ancora tutto in stand-by. E tutti sono immobilizzati, in stop motion tipo Matrix. Io guardo soltanto, senza intervenire. E senza far niente. Dolce far niente che si fa soltanto in vitua.
Potessi essere sempre come Irene Grandi. In vacanza dalla vita. O almeno, in vacanza da una vita. Potesse la vita esser la vitua. Sarebbe tutto risolto. Ma alla mia vita manca una U, e le avanza il lavoro. E siccome chi non lavora non va in mutua, e, soprattutto, non fa all'amore, sono costretta a guarire. E a tornare al mio banchino, alle liste della spesa e agli aperitivi dei sani.
Che posso farci? Quando c'è la salute c'è tutto, dicono. Dicono.
*trattavasi di una bella infezione. Mica tanto poco...
Sono tornata a casa.
Sono tornata a casa, ma non c’era più.
Ora c’è un cimitero.
Senza cadaveri, di sole lapidi.
Con sopra foto, pelouches e candele.
Ci sono anche libri, ci sono mobili. Ci sono dizionari e ninnoli.
E poi fumetti, certificati, dischi. Tutto uguale a com’era prima.
Di più c’è un tavolo, dei quadri, delle bambole, un televisore che nessuno vedeva.
Manca qualcosa? Mancavo solo io, la defunta.
Assente. Renitente. Fuggiasca. Prigioniera.
Sono tornata a casa, ma ora non c’è più.
C’è un albergo, pensione completa.
Con tanto di biancheria pulita, sveglia mattutina.
Mi dan perfino le pantofole, il pigiama. E la valigia per andare via.
Sono tornata a casa, ma la casa non c’è.
Ora c’è un ripostiglio.
Parcheggio di quadri reietti, avanzi di ricordi, e geroglifici. Che nessuno sa capire.
E anche adesso che ci sono io, che li ho scritti, non riesco a starli a sentire.
Le ragnatele sono invisibili, eppure mi pare di vederle.
E di sentire odore di rancido, di muffa. Di biblioteca.
È rimasta a aspettarmi solo la carta di una caramella,
ma con tutti quelli che ci han messo mano, a questa casa,
è solo un’altra impronta su una teca.
Una collezione di cicatrici è questa casa che è un museo.
Perché non vive, espone, è di tutti e non è mia.
Ma chi c’è stato qua? A chi ti sei data?
Fottuta casa traditrice. Che mischi i miei brandelli di vita con gli ammennicoli di altre vite.
E dove hai messo le luci? Al buio non le trovo.
Dove si scende dal letto? Una volta vedevo tastoni.
Cosa ci faccio qua? A ricordare?
A sentirmi estranea, ospite, aliena.
Tumulata nella mia cappella di famiglia, dove ogni cosa urla la sua storia.
Mi assordano le voci, i gemiti, le lacrime.
Non riesco neanche a morire.
Eppure il letto lo riconosco.
Ma oggi è irto di spine.
Vorrei portar via tutto, vorrei dar fuoco a questo freddo mausoleo.
Ma non mi azzardo, rubo solo un souvenir.
Bisogna aver rispetto per i morti.
Perché la morta sono io.
Positiva ai documentari.
Ieri me ne sono spupazzata un altro.
La registrazione di una puntata di "Eventi 21", trasmissione andata in onda il 29 dicembre scorso sulla TV svizzera di lingua italiana TSI.
Lo spettacolo-inchiesta incastonava momenti di teatro di Christian Biasco in un tessuto di interventi in studio, contributi filmati e interviste tratti da un documentario straniero, pluri-premiato, realizzato da Peter Chappel e Catherine Peix. Tema: le origini dell'AIDS. E una teoria sconcertante: il virus dell'HIV potrebbe essere nato in laboratorio in Africa e inoculato somministrando il vaccino antipolio.
Tutto si svolge poco prima del 1960, quando negli USA è in atto una piccola faida tra scienziati per aggiudicarsi la partita delle vaccinazioni contro la poliomelite. In quegli anni un tale Koprowski, virologo polacco naturalizzatosi americano, inizia a sperimentare su più di un milione di persone nell’allora Congo Belga il vaccino orale antipolio da lui elaborato.
Sembra una coincidenza, ma i primi casi ufficiali di AIDS si registrano in quegli anni, in quelle zone. E, sembra una coincidenza, ma i vaccini di Koprowski sono stati prodotti utilizzando reni di scimpanzé, naturalmente infetti da un virus dell'immunodeficienza delle scimmie (SIV). Che è, guarda caso, progenitore dell'HIV.
Ma può essere tutto una fatalità, una combinazione?
Già Tom Curtis nel 1992 si fece fautore della tesi su Rolling Stone, con un articolo dal titolo “L’origine dell’AIDS” (testo in inglese).
Qualche anno dopo, nel 1999, alla staffetta subentra Edward Hooper e il suo “The River”: una lunga e dettagliata ricerca, frutto di anni di viaggi, interviste, studi, sulle tracce dell'AIDS e delle sue ancora misteriose cause.
Misteriose, sì, perché ancora oggi, nel 2007, non è stata pronunciata una parola definitiva in merito. E la comunità scientifica, di fronte ad invasioni di campo di giornalisti come Curtis o Hooper, ha sempre e solo serrato le fila, attaccando gli oppositori a colpi di querele per diffamazione e episodi di ostruzionismo.
Brutto dirlo, ma la Verità probabilmente non si saprà mai.
E dunque, quale consolazione, io preferisco saperne molte. Anche quando sono sconvolgenti, tragiche, e così gravide di conseguenze come questa.
Bruce Love.
Io adoro quest'uomo chiamato Bruce Lee.
L'ho scoperto dopo aver visto il documentario "Bruce Lee. La leggenda".
A 27 anni quasi scoccati.
Ma voglio sperare che non sia troppo tardi per imparare l'arte del "Using no way as way having no limitation as limitation" (=usare il non metodo come metodo avendo l'assenza di limiti come limite).
Teoria affascinante, proverò a metterla in pratica. E a studiare le parole e le opere di questo sant'uomo d'Oriente, che ha elargito saggezza a profusione attraverso film e combattimento, più di quanto molti equivalenti odierni (vogliamo parlare del wrestling?) sappiano fare.
Aggiornamenti a presto.
Torno in incubazione.
Rispondendo con Bruce, a chi mi volesse già diagnosticare una stipsi creativa, che solo "Le teste vuote hanno le lingue lunghe".
Aperta al Traffic.
Viva Traffic e viva la musica gratuita per tutti.
Ebbene sì, ieri sera ero tra i sessantamila spettatori dei Daft Punk.
Ed ebbene sì, ultimamente la mia vita sociale ha subito un'impennata, parallela alla fioritura estiva di Torino: concerto di Vasco, festa della 500, e adesso il Traffic. Sembra una terapia d'urto contro la mia demofobia. E in effetti magari lo è.
Fatto sta che ieri sera la folla non mi ha fatto il benché minimo effetto, se non la gioia di vedere sessantamila teste mobili e centoventimila braccia che si alzavano e si abbassavano all'unisono sulla musica degli "stupidi straccioni".
Mi sono divertita un sacco. Di fronte al palco con gli occhi di fuori, poi ballando ad occhi chiusi. Battendo le mani, fino a non reggermi in piedi. Saltando nel buio, immobilizzata dalla luce.
Un altro concerto che del concerto ha poco. Ha più dell'ibrido tra djing e installazione, arte del mixaggio e videoarte.
Una piramide fosforescente, coreografie luminose, fari e scintille, e in mezzo due robot da far urlare ad un "2007 - Odissea nello Spazio": il duo francese dei Daft Punk, che mi ha rubato tre ore di sonno, ma me ne ha regalate altrettante di ballo e sballo, di trance e di dance.
Ne è valsa la pena. E, a differenza dell'anno scorso, non sono nemmeno svenuta. Qualcosa vorrà dire.
Sì Vasco, io ci casco.
Dicevo: “L’andrei a vedere solo se fosse gratis”.
Era gratis, e sono stata di parola: sono andata al concerto di Vasco, ieri sera al Delle Alpi.
Mi hanno regalato due biglietti, e siam partiti, io e il papi. Già quello un evento. L’altro, il concerto? Piacevole, bello, dai. Una festa.
75.000 persone che più che assistere allo spettacolo di Vasco, assistono al proprio. Vanno a vedere loro stessi che vedono Vasco. Strana tautologia, spirale virtuosa e viziosa insieme. Un capovolgimento tra soggetti e oggetti della proposizione: Vasco allo show dei propri supporter. Per lui.
Almeno, così mi è parso.
Forse perché eravamo tanto lontani che Vasco, sulla mia retina, non era più grande di una formichina. Forse perché l’immagine sul megaschermo faceva strani scherzi, e il labiale andava in tilt con l’audio, come nei film giapponesi doppiati male. O forse perché i fan di Vasco urlavano davvero forte e duro, più del loro idolo. Fatto sta che sui miei sensi hanno lasciato traccia più i 75.000 dell’1: del resto, era una lotta impari.
Il palco era meraviglioso. Una grande struttura di tubi, lastre metalliche e schermi sui quali si proiettavano luci e immagini, ad accompagnare la musica. Il mix aveva qualcosa di psichedelico.
Insomma - PER ME - lo show ha avuto il sapore della celebrazione, più che del concerto: si festeggiava l’amore per Vasco del suo popolo. In teoria, il festeggiato poteva esserci come non esserci.
Io c’ero.
Finalmente posso dirlo anch’io, DD.
Audio o libro? Tutti e due.
Mi sono scoperta una divoratrice di audiolibri.
Li ascolto mentre cucino, mentre stendo i panni, stiro, faccio ginnastica.
Per una piccola casalinga solitaria avulsa dalla TV e dalla società come me sono l'ideale.
Eccovi un link legale.
A voi la ricerca di fonti illecite alternative.
Fiera de che?
Volete mettere lo spettacolo?
Ok, lo ammetto, dovrei commentare qualcosa sul mondo dell'editoria italiana, sulla quantità e qualità dei titoli proposti, sui 300.000 visitatori che hanno affollato la Fiera quest'anno e che forse magari un libro nel 2007 se lo leggeranno ma chi può dirlo... invece mi imbatto subito nella venalità e a questo punto la cavalco:
possibile che si debba pagare, per andare - alla fine della fiera, come si suol dire - in libreria?
Possibile che si debbano mettere soldi per vedersi pubblicare un libro?
O per partecipare a un concorso letterario?
Di cosa si tratta, di una sorta di autofinanziamento? Per un mondo altrimenti non autosufficiente?
Allargo le maglie del discorso e delle domande: possibile che i gruppi musicali, anche giovani, anche indipendenti, ai concerti vendano più magliette che cd? Possibile che la cultura debba la sua sussistenza a tutto ciò che dovrebbe essere di contorno, e non a libri, cd, dvd, ossia alle portate principali?
Ovvietà, forse. Ma io ci rimango male lo stesso. Con 8 euro sapete quante magliette e spillette potevo comprarmi?
È nata una Scheggia.
Ho finito di scrivere Scheggia, il mio secondo libro e primo romanzo, seppure per ragazzi.
"Scheggia" è la mia creatura.
Per certi versi un perfetto Bildungsroman, ma con qualcosa in più: una mistura strana tra finzione surreale e verità, dal sapore
molto "ai confini della realtà" (chissà chi l'avrà capito 'sto sproloquio da critica letteraria).
Partorisco a ottobre 2007 (sempre edizione Campanila, disegni di Daria Palotti). Ma qui trovate un'anticipazione. Un'ecografia, in regalo per tutti voi.
Reduce da un weekend letterario...
Quasi quasi mi ci ficco.
I miei stand preferiti? Quelli francesi.
Lunedì sono stata alla mia scuola elementare a Cascina (Pisa), in qualità di autrice per bambini. Neanche nelle mie più rosee previsioni avrei potuto immaginare un successo simile: i bimbi erano interessati, attenti e bellissimissimi!
E adesso si torna al lavoro. Dena smette i panni della scrittrice e indossa quelli della pubblicitaria. Anzi, quasi quasi i panni della pubblicitaria me li metto sopra. Così al momento opportuno, trac. Come Superman, mi strappo i vestiti di dosso. E mostro a tutti la mia vera natura.
La Fiera della fiera.
Martedì 24 sarò a Bologna per la Fiera del Libro per Ragazzi. Ai visitatori della Book Fair raccomando di visitare lo stand della mia casa editrice, Campanila: padiglione 26, stand A/36. Ai danarosi editori stranieri, raccomando di venirmi a cercare.
Io tattoo e tu?
Ah no, io non lo farei mai.
È così… irreversibile.
E se poi cambi idea?
Tanto poi da vecchio te ne penti.
Ma tu li hai mai visti in spiaggia quei vecchi coi tatuaggi? Che schifo!
Come se l’assenza di marchi rendesse i vecchi di bell’aspetto, ai loro occhi.
Figuriamoci. A certe persone fa schifo tutto. Eccetto loro stessi. Anzi, loro stessi compresi.
Quelli che hanno scelto di tatuarsi DI NORMA sono altrettanto beceri.
Tribale o un disegno, sulla caviglia o sulla spalla, una rosa o un’ideogramma giapponese: sembra che farsi un tatuaggio sia alla stregua di decidere cosa vedere in tivù o cosa preparare per cena. Alla stregua di un’idiozia.
Dei tatuaggi, dico io, non bisognerebbe parlare.
Anzitutto, per potersi godere a pieno gli sproloqui dei tuoi interlocutori, evitando che le loro opinioni siano viziate dalle tue, o dalla tua condotta.
Scopriremmo una punta d’invidia repressa negli oppositori, che sotto sotto rimpiangono di non averne il coraggio. E un sotterraneo pentimento in quelli che parlano parlano di quella farfallina sul polso che non ha senso per nessuno, e nemmanco per loro. Che non ha un senso neanche estetico! e che da vecchi, in spiaggia, si vergogneranno di esibire.
Ecco, se si evitasse di parlarne sarebbe meglio. I tatuaggi tornerebbero ad essere un fatto privato, quale sono, e scomparirebbe quella componente di esibizionismo che si ravvisa spesso – CON LE DEBITE ECCEZIONI – nel farli, nel non farli, ma soprattutto nel parlarne.
Dunque scusate se ho tirato fuori l’argomento. Prometto.
Non lo faccio più.
Smascheriamoletuttedunpezzo.
Si contano sulla punta delle dita, per fortuna, ma prima o poi vi capiterà di imbattervi in un esemplare, che scambierete dapprima per una perla rara, poi per una meno rara, ma vera merda.
Lasciate che vi prepari all’evenienza.
Vi parlerò di una speciale razza di donne. Una strana devianza nell’evoluzione del genere femminile, una stirpe di mutanti quanto immutevoli esseri: le donne tuttedunpezzo.
Io le odio. Ne conosco almeno due. E mi sembrano tantissime.
Sanno tutto loro. Tutto. E quando non lo sanno, comunque non poteva saperlo nessun altro.
Noi semplici umani viviamo gli anni dell’incertezza e del dubbio, del lavoro precario o inesistente, dei single e delle famiglie divise, o allargate, o sparpagliate. Loro, le donne tuttedunpezzo, no. Loro sono integerrime. Granitiche. Non conoscono dubbi o incertezze, ripensamenti o cambi di opinione, non dicono mai “credo che”. Ma sempre “sono sicura”. Non dicono mai “forse”, ma solo “è così”. La loro è l’ultima parola.
Le donne tuttedunpezzo sono un anacronismo vivente. Un baluardo di cocciutaggine contro le scosse sismiche costanti che insidiano la società del 2007. In sintesi, il loro credo:
- Tutti attorno a me sbagliano. Io sono nel giusto.
- Le mie idee, i miei pareri, le mie posizioni sono quelle corrette. Gli altri non capiscono niente.
Per noi – gli altri – un’unica possibilità di salvezza: fare esattamente quello che fanno loro. Peccato che in questo modo commetteremmo un altro errore: imitarle. Le donne tuttedunpezzo direbbero, infatti, che le abbiamo copiate. E si sa che loro sono inimitabili. Uniche ed inarrivabili. Sono le valchirie del XX secolo.
Come riconoscerle? Dall’incidenza della parola “io” nelle loro frasi, nettamente sopra la media. Dall’inclinazione dello sguardo: 45°, dall’alto in basso. Dalla sensazione di disagio che pervade ogni conversazione con loro. Conversazioni di tutti i tipi: il minestrone? Si fa così, come lo faccio io. La casa? Si arreda come l’ho arredata io. I vestiti? Io ho buon gusto, voi ci provate soltanto. E non c’è verso di patteggiare con un democratico “i gusti son gusti”, “ognuno ha le sue opinioni” ecc. ecc. C’è solo “io, io, io e ancora io”. Fino alla fine del discorso, fino a che tu, povero spettatore del loro show, non sei costretto a capitolare. Accettando di essere, irrimediabilmente ed inevitabilmente, un individuo di seconda classe.
Come ci godo però. Quando vedo la scintilla della miseria umana nei loro occhi. Perché c’è un momento in cui la vedo. In cui scorgo nel loro sguardo un’ammissione di colpa: “Azz. C’hai ragione tu. Me la sto tirando come se ce l’avessi d'oro, ma è tutta una scena.” E quel momento è pura libidine.
Vi do un consiglio, allora, se permettete. Prendetele in castagna, le donne tuttedunpezzo, mettetele all’angolo, senza paura. Insistete, che quella data cosa non vi risulta, che non è vero, che il minestrone non “si fa così”, ma cosà; sbattete loro sul muso le enciclopedie e i libri, mettetele davanti al fatto compiuto. Non confesseranno mai di essere in torto, ma sul loro volto avverrà una lieve mutazione: un sopracciglio alzato, convulsamente; un lieve tic all’angolo della bocca; una linguetta che spunta, a bagnare le labbra bugiarde e inaridite. Si riveleranno per quello che sono: attrici. Perché loro sanno di essere delle coglione. E passano la vita a mascherarlo.
Smascheriamole. Smascheriamole tutte. Non otterremmo niente, forse, ma ci prenderemmo una rivalsa. Una vendetta piccola piccola, che non toglie la frustrazione, ma concede un po’ di respiro. Un buco in più nella stretta cintura della sicurezza di sé. Prendiamoci noi – per un momento, un solo momento, quanto dura uno sguardo - il diritto di fare le inquistrici delle donne tuttedunpezzo. Prendiamocelo noi, donne inmillepezzi.
Appello
Son io a prender la parola.
E a farne supplica: voglio esser condannata!
Non a una pena. A una tortura.
L’invento io, sola,
io sola so
quale sarebbe la più dura.
Vi pare sia una scusa? Forse.
A me pare una preghiera:
tenetemi un’ora intera
ad ascoltare mia madre.
Mostratemi il broncio di mia sorella,
e le ciglia aggrottate di mio padre.
Lasciate che mi innervosiscano le amiche,
e che io pianga nel mio letto,
dove qualcuno almeno può sentirmi,
e sapermi diversa.
Toglietemi la penna per sfogarsi
e infine
toglietemi anche la parola,
perché là fuori, coi miei carcerieri,
non avrò più
bisogno di parlare."
Paris e le BR. Ovvero, non vorrei dirvelo ma: siamo perduti.
"Che frigata, su Rai Tre c'è Blu notte," ho gioito da perfetta intellettualoide. "Puntata sulla Storia delle Brigate Rosse!"
Ho guardato avidamente per 10 minuti.
Finché Rai Tre non ha chiamato il time out per la pubblicità.
Al che io, che la pubblicità la faccio ma non sempre la guardo, sguaino il telecomando e ci do di zapping.
Davanti a me, il migliore campionario della tivù italiana: Grande Fratello, Bud Spencer e Terence Hill, una serie americana tutta effetti speciali, un film tivù italiano a base di lacrime e buoni sentimenti. E poi, su Mtv... "The Fabolous Life of Paris Hilton".
Ossia, la favolosa vita di Paris Hilton. Una vita fatta di: un vestito firmato al giorno, rigorosamente gratis; un frocissimo insegnante di portamento, per esibire ai paparazzi esclusivamente il lato migliore; un codazzo di amiche a pagamento; un'ossessione per il rosa e per gli Swarowski; e poi feste, discoteche, e un'esposizione costante a tutti i mezzi di comunicazione, 24 ore al giorno. Paris è un animale del circo dello spettacolo. L'archetipo per tutti gli aspiranti al ruolo di tronisti, concorrenti di reality, Amici di Maria, della Vecchia Fattoria ia ia o.
È trascorso un quarto d'ora prima che mi rendessi conto di essere stata fagocitata dalla tivù spazzatura. "Ma io stavo guardando il programma sulle Brigate Rosse! Cosa ci faccio qua a fare le pulci ad un personaggio mediatico, che probabilmente ha meno vita interiore di una statua del Museo delle Cere? Che tra l'altro mi sta pure sulle palle e che offende tutti quelli che si guadagnano la vita onestamente?"
D'istinto ho cambiato canale, rossa di vergogna. Ero caduta vittima della sindrome tgcom.
Macchina infernale questa televisione. Come infernale è tutto il sistema che le sta dietro. Come infernali sono i nostri cervelli. Io, per sicurezza, la tivù l'ho spenta. La storia delle Brigate Rosse? Me la leggo su un libro.
Ai confini della mia realtà.
Io guardo Ai confini della Realtà. The Twilight Zone. Una serie che è andata in onda per la prima volta nel 1959. Anticipando tutto quello che le sue eredi potessero fare, dare, o dire.
Ho una proposta.
A proposito del "segreto patimento" delle donne, del quale parla Ada Negri.
E in ossequio alle coraggiose che ingoiano "l'orgoglio" e rompono il silenzio, io dico:
VERONICA FOR PRESIDENT.
L'ultima risorsa del copy.
Di noi donne nessuno
ha mai capito nulla
e abbiamo troppo orgoglio
per dir forte
il nostro segreto patimento.
Ada Negri
A me gli occhi.
Ho rinnovato completamente la grafica del mio sito, www.almadena.it. Mi spiace un po' di perdere lo skin del cipresso piangente. Ma un giorno me ne farò una ragione. Un giorno tipo oggi.
Storie della Natura. Per conoscerle meglio.
Potete acquistare il libro online, verificare la libreria più vicina dove è già in vendita, o semplicemente richiederlo al vostro libraio di fiducia. Insomma, accattateville.