Pace fatta con i bambini.

Da bambina ero secchiona e asociale. Se non bastasse, sovrappeso e pure un po’ pelosetta. Insomma, gli altri bambini mi odiavano. Così li ho odiati anch’io. Ho odiato tutti i bambini, indistintamente, con tutta me stessa, dagli 8 fino ai 25 anni.
Poi mi hanno chiesto di scrivere un libro per bambini. Azz. E l’ho scritto, Storie della Natura, anche se per farlo ho dovuto pensare ad un bimbo diverso da tutti quelli che avevo incontrato. Un bimbo che non c’era, perché non esisteva ancora: il mio. Però mi sbagliavo. Il mio bimbo esiste eccome. Anzi, ne esistono tanti. Curiosi, attenti, freschi. Buoni. Ne ho conosciuti, grazie a Storie della Natura, un po’ in mezza Italia. Ne ho conosciuti anche a Peccioli, a Fiabesque, con immenso piacere. Ma anche con sollievo. Meno male. Per incontrare il bimbo dei miei sogni, non devo per forza partorirlo io. E correre il rischio che poi invece prenda da me, dalla mamma: secchione, asociale e pure un po’ peloso.

La natura parla ai bambini.

Domenica 17 dicembre terrò un workshop per bambini sul mio libro Storie della Natura.

Siete tutti invitati, quindi, a Peccioli, in provincia di Pisa, che in occasione del festival Fiabesque si trasformerà nel paese delle fiabe.

Con me ci sarà l'illustratore di Storie della Natura, Tuono Pettinato, aka Andrea Paggiaro.

E... io credo che ci divertiremo. Noi di sicuro.
I bambini, me lo auguro.

Io, Marie Antoinette e la giraffa.

Ieri sera ho visto l’ultimo film della delfina Coppola sulla delfina Marie Antoinette: Marie Antoinette, appunto. L’ho trovato bello. Quasi impeccabile. Tranne - tadan, c’è sempre un tranne - per una presenza fastidiosa che a tratti ha infestato la mia visione: le giraffe. Quei microfoni per la presa diretta che ogni tanto fanno capolino dall’alto dell’inquadratura dei film e che, specie in una pellicola in costume, non puoi fare a meno di notare e di detestare. Me lo sono sempre chiesta e me lo chiedo anche adesso: ma perché?

Perché le giraffe scorrazzavano liberamente sulle volte dello schermo? Uno sbaglio della regista o una svista dell’operatore di sala? Ho cercato una risposta sulla Rete ed ecco cosa ho trovato.

1. Chi dice che è un errore della regia. Un errore voluto:

“Se è un errore fino agli anni ’50, non lo è più dagli anni ‘60 in poi (anche quando un dettaglio è veramente sfuggito ed un ciak non si è potuto ripetere). Più o meno da quando Cassavetes, muovendosi sulla strada aperta dalla nouvelle vague, ha posto il sigillo al blooper d’autore in nome di un cinema verità di cui era il pioniere americano. Nel 1970, Cassavetes infila un microfono nella scena finale di 'Mariti'. Da allora la giraffa in campo assurge a soluzione espressiva e verrà usata da molte generazioni di cineasti come vezzo cinefilo, come dichiarazione di appartenenza ad un certo tipo di cinema ed in ultimo come firma d’Autore. A farla breve, la giraffa è una strizzatina d’occhio che il regista fa al suo pubblico.”

Fonte: repubblica.it/trovacinema

2. Chi dice che è un piccolo difetto tecnico del film, in sé:

“…qualche volta però capita che l'addetto alla giraffa sbagli e dia origine al cosiddetto blooper, cioè il microfono che fa capolino per un attimo dall'alto dello schermo. Normalmente però il pubblico, preso dallo spettacolo, non si accorge di questo piccolo difetto tecnico del film.”

Fonte: fralenuvol.it

3. Chi dice che la colpa sta nel mezzo, tra regista e proiezionista:

“Nel caso l'addetto abbassi troppo la giraffa, può capitare che il microfono entri per qualche istante nell'inquadratura, generando uno dei cosiddetti blooper. Questo errore è raramente notato dallo spettatore, ma può risultare fastidioso, specie nel caso in cui il proiezionista scelga un mascherino errato (troppo grande in altezza).”

Fonte: wikipedia.it

4. E infine, chi la colpa la dà tutta ai cinematografi:

“Anche quando vedete microfoni e giraffe varie spiovere dall'alto dell'inquadratura, non si tratta di un errore. Quando si girano dei film, la pellicola prende nell'inquadratura una parte che non verrà mostrata, a seconda del formato - detto anche ratio - che avrà poi il film: 1,66:1, 1,77:1, 1,85:1, 2.35:1 sono i formati più comuni. Se poi però quando proietti il film ti dimentichi di coprire le parti (sbagliando "mascherina", cioè una copertura al proiettore per tagliare le parti di troppo e ingrandire su tutto lo schermo quello che resta) allora ottieni l'effetto di mostrare tutto quello che non doveva finire nell'inquadratura: microfoni, cavi, ecc.”

Fonte: ferraraforum.it

“Penso che non esista film a presa diretta che non presenti qualche microfono di scena ripreso nelle inquadrature. Ciò è dovuto al fatto che la scena ripresa è solitamente più ALTA di come apparirà la proiezione e quindi solo un cineasta molto esperto sa se e come il microfono apparirà nel tagliato finale.

(…) nove su dieci, la vista dei microfoni dipende solo dalla sala cinematografica (dall'operatore, dal taglio del mascherino e così via) dove il film viene proiettato. Se becchi la giornata storta o il cinema "maledetto" ecco che ti sorbisci un bel "Il Sesto Senso" dove il bambino vede i morti e tu (spettatore) vedi tutti i microfoni. Nella sala a fianco, magari, stesso film ma nessun microfono "a vista". Tutto questo per dire che, forse, - e a meno di molteplici testimonianza e/o plateali sviste - non credo sia giusto o corretto annoverare tra i bloopers di un film (p.e. Chocolat) la presenza di microfoni in campo (soprattutto, come nell'esempio citato, quando l'accadimento è ripetuto e continuo, e difficilmente sarebbe "passato" durante il montaggio). Mi sta bene che lo citi come "errore comune", ma non mi sembra giusto che citi come blooper un difetto derivante esclusivamente dall'incuria dell'operatore della sala dove il film è stato proiettato, e che niente ha a che vedere con quelli che sono i "reali" bloopers di un film.”

Fonte: bloopers.it

Viste queste considerazioni, bloopers.it, che è per eccellenza l’archivio italiano degli errori cinematografici, non pubblica contributi in cui si citano errori di riprese con microfoni provenienti dall'alto. Per bloopers.it non sono bloopers. Punto.

Detto questo, a che conclusioni è giunta la sottoscritta riguardo al film in questione, Marie Antoinette: era fallata la regia o si è trattato semplicemente di un difetto di chi il film l’ha poi proiettato?
La seconda che ho detto.
Credo. O almeno, se c’è stato concorso di colpa la mia bilancia pende a sfavore del cinematografo. Perché:

- Le giraffate non potevano essere volute, a mio parere (vedi punto 1). “Marie Antoinette” non è cinema verità e non vedo per quale motivo la Coppola in un film in costume peraltro avulso da intenti neorealisti dovesse strizzare l’occhio alla nouvelle vague.

- Allora le giraffate erano uno scivolone? Sinceramente, mi sembravano un po’ troppe per non essere state notate in fase di montaggio (vedi punto 4). E troppo fastidiose per essere un “piccolo difetto tecnico del film” (vedi punto 2).

- Credo proprio che al cinema abbiano sbagliato mascherina: e lo dico perché in un punto preciso del film un super, una scritta in sovraimpressione nella zona bassa dello schermo, era malamente tagliata.

Su un punto solo non mi esprimo: se la regista avesse dovuto prevedere casi di incuria della sua pellicola, come questi. Non ho conoscenze sufficienti per dirlo. In ogni caso, se così fosse, un giorno Sofia pagherà. Nell’oltretomba dei registi, Kubrick in persona tirerà alla Coppola una bella scoppola. E amen.

P.S.: Fate un salto su questo sito per consultare l’elenco delle sale cinematografiche da evitare. Il cinema di cui parlo io e in cui ho visto Marie Antoinette non c’è. Ancora.

Un giorno, “Giorno dopo giorno”.

Dove lo trascorre un tardo pomeriggio di un sabato solitario una giovane e solitaria emigrante del fine settimana costretta a Torino dal superlavoro?

In una solitaria, piccola e spartana saletta di un cinema del centro, fresca orfana dell’ampollosa presenza del signor Sgarbi e del di lui harem in corteo, ad assistere ad un film di nicchia del Torino Film Festival, circondata da pochi fortunati portatori di pass al collo, distintivo dell’intellettuale e motivo di suprema invidia. Mia. E di tutti coloro per i quali la cultura non può essere un lavoro.
Ma solo un hobby.

Masticando BigBabol e scarabocchiando al buio, mi chiedevo se la luce sarebbe riuscita a decifrare i miei deliri.
E, a quanto pare, luce fu. Luce su:

“Giorno dopo giorno”
Film-documentario

di Jean-Daniel Pollet e Jean-Paul Fargier
Francia, 2006, Digital Betacam, 65', col.



Il film raccoglie in ordine cronologico un anno di fotografie scattate da Pollet prima di morire. Cioè una settimana dopo aver concluso il montaggio. Ma “Giorno dopo giorno” non è un portfolio. Non è un testamento. È una sfida.

Pollet fu travolto da un treno nel 1989. Nel corso degli anni successivi, si aggravò e durante l’ideazione e realizzazione del film era praticamente ad un passo dalla fine. E lo sapeva. Il suo ultimo anno – quello del film - lo trascorse confinato nella sua fattoria, fotografando il pezzo di mondo che lo circondava. “La mia scommessa era vedere se sarei riuscito a sopravvivere più a lungo scattando fotografie giorno dopo giorno, non lasciandone passare neanche uno senza aver fatto almeno una foto.”

Insomma, Pollet voleva scoprire se le fotografie gli avrebbero allungato la vita. O giù di lì. Se il “clic clac” della sua macchina avrebbe battuto il “tic tac” dell’orologio che scandiva le sue giornate come una bomba ad orologeria. Istante contro tempo.

“Un viaggio lungo un anno”. Un viaggio col fucile puntato. Che tu, da spettatore, vorresti fermare ogni momento. Perché già sai che ogni foto è una frazione di tempo più vicina alla morte. E quasi vorresti impedire a Pollet di continuare nel suo tentativo disperato di congelare quegli attimi. Attimi in cui si susseguono le stagioni, i cieli, i fiori, diverse temperature dello stesso termometro, insomma tutte le cose mutabili, accanto a quelle sempre uguali a se stesse. I libri, le tazze, il bicchiere di vino, il gatto, e il cane sulla poltrona. E tu, anche tu sempre lì, morboso voyeur degli ultimi sguardi di un moribondo.

Il finale l’ho già svelato: il “clic clac” perde. E il “tic tac” si porta via Pollet. Che prima però esaudisce il suo ultimo desiderio del condannato. Questo film. Straziante, duro ma almeno eterno.


Bon voyage Monsieur Pollet. Merci.

Creature.

Scoop: sto scrivendo un nuovo libro. Per bambini. E ho chiesto a mia madre (che ad oggi è la più grande esperta di infanzia che conosca, visti i risultati) di redarre per me la cronostoria dei progressi evolutivi nel primissimo anno di vita. Lei ha risposto con la solita solerzia, inviandomi anche la Denastoria, che pubblico di seguito.


Denastoria:

- Fino a 4 mesi tutto nella norma: niente di eclatante da segnalare, magna e dorme.
- Il suo primo sorriso lo fa a mamma a 2 mesi.
- A 4 mesi inizia lo svezzamento, mangia la farinata con il cucchiaino.
- A 5 mesi fa i primi versi e dice acqu e ghele ghele.
- A 6 mesi dice papà mama e tatata. NdC: dice prima papà, questo è un omissis di mia madre.
- Primo dentino a 7 mesi.
- A 8 mesi le sue prime scarpine, di pelle bianca.
NdC: precoce anche nello styling.
- A 9 mesi ha 4 dentini, gattona e sta in piedi nel box;
ripete le parole che sente.
- A 10 mesi sta in piedi reggendosi con una mano.
NdC: equilibrismo? E mangia da sola la pappa con il cucchiaino.
- Nel giorno del suo 1° compleanno mette le scarpine per camminare e fa i suoi primi passi da sola. Mangia le stesse cose degli adulti.
NdC: per inciso, mangia pure la pasta e fagioli.
- A 13 mesi monta da sola sul divano.
E si fa il suo primo bernoccolo in fronte.



E qui, dopo quel bernoccolo in fronte, la Denastoria si interrompe. Come se il resto si spiegasse da sé.

La canzone della corsa.


Tempo addietro sostenni esserci una musica giusta per ogni occasione. E mi ero riproposta di suggerire la colonna sonora ideale per accompagnare ogni momento, ogni fase e ogni stato d’animo. Ho cominciato con la canzone della buonanotte. Poi, non ho continuato. Lo faccio ora, con la canzone della corsa.
Inutile dire che correre è già di per sé un’attività catartica. Che però, in certi casi, necessita di un incoraggiamento. E la musica batte il tempo, segna il passo, ti dice un-du-tre e ti fa andare avanti. Forse alcuni runner puristi storceranno il naso e pure la caviglia. Obietteranno che bisogna ascoltare i suoni della natura e il silenzio e il proprio respiro e bla bla bla. Personalmente, senza musica non corro. In particolare, senza questa:

- Asian Dub Foundation, Flyover (dall’album Tank)
- Gwen Stefani & Andre 3000, Long way to go (album Love. Angel. Music. Baby. di Gwen)
- Black Eyed Peas, Pump it (dall’album Monkey Business)

Il tutto in ordine crescente di commercialità per una corsa di 12 minuti e 4 secondi. Non lunga, certo, ma molto intensa.

Pisa Book Festival: io c'ero!


C'ero ed è stato bello. Questo festival dell'editoria indipendente ed il largo consenso che ha riscosso fanno onore a Pisa e ai pisani.
Per quanto possa contare, ringrazio tutti coloro che lo hanno reso possibile. E tutti quelli che c'erano, a dare il proprio supporto a me e ad un settore certo non facile, ma - la piccola editoria italiana ce lo dimostra - praticabile. Con qualità, propositività e non lasciandosi fagocitare dai grandi squali.
Certo, a spese, a volte, di dover nuotare in stagni più piccoli e meno affollati. Ma, chiediamocelo: è obbligatorio essere pesci grossi? O si può scegliere di presidiare i piccoli laghi invece degli oceani?
Oppure, si tratta invece di calibrare le proprie bracciate e aspettare di diventare abbastanza forti da competere coi pescecani?
Beh, io personalmente, propendo per questa via. E - sarà l'orgoglio - ma anche quando nuoto negli stagni preferisco pensare che non sia quella la mia specialità. Che sia piuttosto un allenamento. Del resto è per questo che sono fuggita dalla provincia. Per mettermi alla prova. Perché era fin troppo facile "salire sul campanile del paese".
Ma rispetto moltissimo chi segue la prima strada. Chi si sceglie un habitat più limitato e lavora con impegno e passione per riuscire nel proprio territorio, per quanto piccolo sia. Mica devono essere tutti megalomani come me.

Pisa Book Festival: ci sarò!

Sabato 14 e domenica 15, nel pomeriggio, parteciperò con la mia casa editrice al Festival dell'Editoria Indipendente. Sarà l'occasione per conoscere i miei lettori più giovani e per autografare le mie "Storie della Natura". Sì sì, ho detto proprio autografare. Che storia.

Un raduno di pensieri.

Oggi sono stata ad un raduno d’auto d’epoca. A bordo di un Porsche 911 del ’71. E insomma, mi sono fatta qualche domanda. Tipo che ci fa una punkabbestia in un sabba di industriali brianzoli. Quanti straordinari ci vogliono per avere in garage un Lamborghini giallo. Se esiste una strada su cui guidare un Lamborghini giallo a 300 all’ora senza rischiare patente, punti e incolumità fisica. Cose così.
E poi, a bordo del mio Porsche per un giorno, ho capito la totale infondatezza di ogni mia domanda. Perché io non avrò mai un Lamborghini. A meno di non vincerlo ad una pesca di beneficienza. O a meno che qualcuno non me lo regali. Errore supremo massimo. Voglio fare un appello pubblico: che nessuno mi regali mai un Lamborghini giallo o di qualsiasi altra nuance. Andrebbe in pappa nel giro di due settimane. Vuoi che io non scuota almeno una volta la cenere per terra, che non parcheggi sotto il sedile il cartone della pizza, che non metta i piedi sul cruscotto? Impedirmelo sarebbe come amputarmi.
Dunque preferisco lasciare tutti i miei dubbi e il compito di tenere in vita questi capolavori a chi ne ha la pazienza, la passione e, diciamolo pure, i soldi. Che poi, dico io, sinceramente, pensa che succede quando hai l'impellenza di passare al corpo al corpo su un gioiellino del genere, che invece hai il dovere di tenere assolutamente immacolato per te e per i posteri. Troppo frustrante.

Il ristorante con le pretese.

Così si chiama l'ultimo racconto che ho scritto. Qualcosa di molto diverso da tutto quello che avete letto finora. E forse, di peggiore. Cliccate sul titolo per andare alla pagina. E mi raccomando di dire la vostra attraverso il sondaggio. Prometto (con le dita incrociate) di non offendermi per le critiche.

Esibizionismo schifo e esibizionismo schivo.

Dopo l’ultimo post, ho pensato ai blog. A questa esplosione di isole in rete dove è lecito sbirciare nelle vite e nelle opinioni degli altri, e dove viceversa gli altri - persone o personaggi che siano – permettono di farsi spiare, come dal buco della serratura.
Mi sono ricordata tutta la ritrosia con la quale, ormai quasi sei mesi fa, ne ho aperto uno io stessa. E mi sono chiesta non solo come io abbia fatto a superarla, ma soprattutto come abbia fatto così tanta e tanta e tanta gente. Per molti di loro si trattava forse di accantonare un riserbo di proporzioni decisamente inferiori al mio. Per altri con la sindrome del tronista era solo l’occasione che aspettavano per mettere in mostra il proprio ego.
Restano comunque i numeri. Che sono grossi. E inimmaginabili, a mio avviso.
Eppure di detrattori della blogosfera ce ne sono ancora. Come quel mio vecchio amico che, per riportarmi coi piedi per terra, mi ha accusato di “esibizionismo schivo”.
È vero. Forse sono un’esibizionista schiva. Ma io ho un alibi. Ed è questo: io voglio fare la scrittrice. Voglio esprimermi. E voglio farlo su un blog o su un sito, e ringraziare chi si è inventato ‘sta gran cosa, perché mi ha dato la possibilità di avere un confine preciso, netto, tra ciò che resta nella mia testa e nel mio cassetto. E ciò che voglio che sia pubblico. Tra tutte le parole che voglio tenermi dentro. E tutte quelle che hanno preso forma e meritato di essere date in pasto a tutti. Almeno a tutti coloro che vogliono cibarsene.
Senza quest’alibi – o meglio, questa motivazione – non mi sarei mai messa in vetrina.
E adesso, in attesa di aver pronta qualche altra succulenta pietanza letteraria, me ne vado. Torno nella mia grotta da eremita.


A proposito: oggi escono le mie “Storie della Natura” per la casa editrice Campanila. Target: bimbi 8-12 anni circa; una lettura gradevole, secondo me, anche per gli adulti almeno un po’ bambini. Acquistabile anche online. Adesso sì, posso dirlo. Buon appetito a tutti.

Grazie.

Mi sembra doveroso ringraziare tutti coloro che mi hanno scritto parole di apprezzamento del mio sito (www.almadena.it) e dei miei testi. Sapere che i frutti del tuo tempo, della tua passione - e della tua fatica e del tuo dolore - hanno incontrato i gusti di qualcun altro, magari lontano mille miglia per chilometri e indole, e che forse hanno saziato anche il suo di bisogno di sdoganare emozioni per renderle vere, per renderle libere, ecco questo... fa molto piacere.

Per quanto scontato possa apparire.

Agli amici di www.almadena.it e Post Scriptum voglio dire grazie, dunque. Continuate così. Perché io ho intenzione di continuare così.

Stress da rientro.

In barba a ricercatori e giornali, che quest'anno come rimedio consigliavano l'uva nera, io ho provato ad assumere dell'inchiostro. Il risultato è questo. Cliccate sul titolo.

I Rom questi sconosciuti.

La cronaca oggi ha riportato un caso di sfruttamento di bambini per accattonaggio: fermati tre zingari.
Cosa c'è di nuovo? Niente, a parte il fatto che ne parlino.
Un motivo in più per me, stasera, per andare a vedere il documentario Adisa o La storia dei mille anni, che racconta il popolo Rom della Bosnia Erzegovina.
Mi sono chiesta "ma cosa cavolo ne sai te davvero dei Rom?" E la risposta è stata "niente". Non che questo film mi abbia aiutato, visto che l'80% dei dialoghi non è sottotitolato. Ma forse è stata una scelta voluta del regista. Come per dire allo spettatore: "Visto quanto ne capisci tu di Rom?" Proprio niente.

14 luglio '06,
Caparezza a Torino

Divertente e irriverente, proprio come me l'aspettavo. Viva Traffic e viva la musica gratuita per tutti.



7 luglio '06, Vinicio Capossela a Cave di Paderno (Mi)
Presenza scenica, location suggestiva. Uno show che mi avrebbe fatto innamorare di Vinicio, anche se non l'avessi conosciuto.

Ode agli apripista.

Gli apripista sono una specie particolare, spesso bistrattata. Ce ne sono, trasversalmente, in ogni campo: canzoni apripista, film apripista, spot, libri, quadri. Persone e personaggi. Inaugurano delle mode, o ci informano di un nuovo stile. Puntano i riflettori sulle nicchie, per attirare sull’underground gli sciami del grande pubblico.
Alcuni apripista sono davvero antipatici. Sono quelli che, per rendere digeribile alle platee il loro carico di novità, si lasciano annacquare dalla cultura popolare, si prestano ad operazioni commerciali, smorzano i loro toni quasi a divenire macchiette. E il bello è che a volte non inventano proprio niente; piuttosto coagulano in sé tendenze e temi già esistenti, portandoli all’attenzione di tutti.
Beh, vorrei spendere qualche parola a loro discolpa. Non so. Il Codice Da Vinci: ha fatto un gran minestrone di misteri storici, teorie apocrife, di tesi eretiche e di vere e proprie balle di fantasia. Tra gli ingredienti, anche dei dubbi legittimi, la rivalutazione di figure realmente esistite, la messa in discussione dei dogmi. Insomma, concetti e idee che senza Dan Brown non sarebbero giunti alle orecchie dei più. E che da questi più possono ora essere studiati attraverso altri strumenti, altre fonti. Chissà, una riflessione più approfondita potrebbe condurre altrove, più lontano, magari a rinnegare tutto, anche il punto di partenza. Ma senza l’apripista chi ci sarebbe arrivato? A parlare della Maddalena, dell’Opus Dei e dei Catari? Non milioni di persone in tutto il mondo.
Un altro esempio? Jovanotti, all’epoca, per il rap in Italia. Non seguiva i dettami stilistici d’oltreoceano, non si portava dietro la cultura hip hop, non ha mai realmente tenuto alla diffusione del genere. (E tra l’altro, non mi piace per niente. Dovevo dirlo.) Eppure, chi mai avrebbe parlato nel ’90, in Italia, di rap se non avesse fatto lui da apripista?
Altro esempio? I breakers a Sanremo. Apripista che si espongono anche per chi resta in ombra, si beccano i pomodori marci per essersi commercializzati (è così che si usa classificare chi fa il salto al pop nelle controculture), ma spianano la strada a chi ha da venire, fanno conoscere anche alla pensionata valdostana qualcosa che sarebbe rimasto, altrimenti, irrimediabilmente nel sottosuolo.
Niente contro le pensionate valdostane. Ma fummo fatti per seguir virtute e canoscenza. Sia lodato chiunque ci indichi un nuovo sentiero.
Navigando per il mare della scrittura, mi sono imbattuta negli haiku. E finalmente ho deciso di saperne di più.
Gli haiku sono dei componimenti poetici della tradizione giapponese, di origine antichissima. Hanno una struttura fissa: tre versi rispettivamente di cinque, sette e di nuovo cinque sillabe. Insomma, 17 sillabe in tutto, nelle quali l'haijin (il poeta) racchiude la descrizione di un attimo. Come direbbero i Tiromancino.
Gli haiku nascono come frutti di stagione, legati, almeno con una parola, ad un periodo dell'anno. Ma innumerevoli sono oggi le variazioni sul tema, sia nello stile che negli argomenti, tanto che questo vincolo temporale (il riferimento stagionale è detto kigo), anche in Giappone, non è più vincolante come una volta.
Ho deciso di dilettarmi un po' con gli haiku. Mi sembrano un'ottima palestra di sintesi. Uno strumento potentissimo per suscitare una sola, devastante emozione. Un gioco magnifico con la polisemia delle parole.
Ne ho scritto uno, eccolo. Forse non merita il nome di haiku. In ogni caso non merita un titolo. Gli haiku non lo hanno e giustamente. Sarebbe come dare un nome ad un quadro astratto. Un recinto alla libera interpretazione.


Dentro la rete
s’intrica e si districa
l’alma di Dena.


Si chiama Volver perché torna.









In Volver torna tutto. Tornano i destini dei genitori, che ricadono inesorabili sui figli e sui nipoti. Tornano i morti, a saldare i debiti pendenti; e tornano i vivi, risalendo controcorrente i fiumi che li hanno portati via dai paesi natii. Tornano i volti del passato, quelli di chi solo può sapere e può capire. Perché c'era. Tornano le colpe mai espiate e le eredità mai riscosse. E soprattutto torna una sceneggiatura che non lascia nulla al caso, che fa vivere, in un microcosmo autarchico, un piccolo mondo fatto di omertà, pettegolezzo e incommensurabili segreti. Di baci, abbracci e vendette. Di amore filiale e di incesto. Di "tutto è sulla bocca di tutti", ma "tutto resta in famiglia".
Insomma, Almodovar ha fatto Volver tutto. Troppo?

L'ultima poesia: Giovanni a Salomé.

Personal mente.

A tratti, purtroppo, ti considero il mio specchio.
E, non vedendomi dentro te, non esisto.

Facciamo luce sui cessi.


Ho sempre provato una certa avversione per le fotocellule dei bagni pubblici. Per intenderci, i sensori della luce che ci sono nelle toilette dei bar, o degli uffici, o delle scuole. Lì quasi mai trovi l’interruttore della corrente, come a casa. Lì quando ti scappa ed entri di filato in gabinetto ti senti come al Grande Fratello.

Insomma, io quegli aggeggi non li sopporto. Mi disturbano per il solo fatto che rilevano la mia sagoma appena entro in bagno. E perché m’hanno visto? E cosa vorrà dire? Ecco che spunta la paranoia da grassofoba. Purtroppo è così. Mi stanno simpatici solo ed esclusivamente quelli che, al mio ingresso nella toilette, non si accorgono della mia presenza. Resta tutto buio, almeno finché non mi sbraccio come una naufraga al passaggio di una petroliera. Allora sì, i rapporti tra noi si mettono bene. E posso rivolgere a quell’occhio cieco, ma indiscreto, uno sguardo benevolo.

Se poi la luce si spegne nel bel mezzo del bisognino, sotto sotto godo immaginando che sia perché non sono tanto d’ingombro. Oddio, pensandoci bene, quando sono lì, in piedi e al buio, sospesa culo in fuori sul cesso più cesso che ci sia, magari un po’ m’innervosisco. In situazioni così cosa fai? Improvvisi un ballo di San Vito grondante d’urina per farti notare dalla fotocellula? Annaspi nell’oscurità cercando prima la carta igienica, poi la chiave della porta, dopo la maniglia e, non ultime, le tue mutande? Sempre in equilibrio precario come un fenicottero? Non sono dei bei momenti. Meglio il caro vecchio on/off. Che se si accende la luce sei sicura che è perché l’hai accesa tu, non perché hai preso qualche chilo.

N.d.A. L'autrice aderisce alla scelta ecologista di utilizzare interruttori a tempo o fotocellule per gli scopi suddetti. Ma questo che c'entra con le sue paranoie?

Un gruppo da tesi di laurea.















Sabato scorso sono andata al concerto dell'Asian Dub Foundation. Mammamia. Era tanto che non assistevo - che dico, partecipavo - a qualcosa di così coinvolgente, energetico, vivo.
L'Asian Dub Foundation, mi è venuto subito da dire, è un gruppo su cui fare una tesi di laurea. Sul multiculturalismo, sulla cosiddetta globalizzazione, sull'ibridazione e il meticciato del mondo presente. Perché nessun altro gruppo che io abbia mai ascoltato ha saputo unire in un amalgama così armonico tanti generi e tante culture: la musica indiana, il reggae, le melodie tradizionali dei loro padri, i componenti dell'Asian Dub li hanno fusi e rienterpretati con la jungle, il dub, l'hip hop, il punk. Nell'Asian Dub Foundation c'è tutta la musica di oggi e di ieri, forgiata in una nuova lega tutta loro, irripetibile. Non per niente la formazione ha dichiarato: "Siamo noi il vero Britpop." Magari.

La canzone della buonanotte.

Un bellissimo brano per addormentarsi è "On site" degli Psapp, un duo inglese che ho scoperto da poco. Loro - Carim Clasmann e Galia Durant - definiscono così la propria musica: "We like making songs with little noises poking out". Canzoni con piccoli suoni che emergono, ideali per accompagnare il passaggio al sonno in un languore con venature malinconiche.
A chi preferisce traghettare verso l'incoscienza con più buonumore e fiducia, consiglio un altro vettore: "Salti nell'aria" di Cristina Donà. "Sorridi e l'aria si accende. Per te. Mille luci che scendono."

La musica giusta.

C'è una colonna sonora giusta per ogni momento, ogni fase, ogni stato d'animo. Io proverò ad elencare le canzoni che, come un buon vino, accompagnano ciascuno di questi piatti.

Sto leggendo...

..."La famiglia Manzoni" di Natalia Ginzburg.
Vuoi per prepararmi alla visita di casa Manzoni, che mi attende viste le mie frequentazioni lecchesi.
Vuoi per conoscere la personalità di un autore che, contrariamente a quello che la scuola italiana insegna, non equivale a quella di un suo busto in marmo.
Vuoi, infine, perché mi attrae la prosa della Ginzburg. Mi piace quel suo stile da "finta tonta" (così è stato definito da Oreste Del Buono). Quello di chi guarda al mondo con occhi di bambina, senza predicare, senza condannare o assolvere nessuno. Insomma, il contrario del vate Alessandro.
Che, per una dura legge del contrappasso, in questo romanzo, passando da narratore a protagonista, viene messo completamente a nudo:
e chi lo sapeva che Manzoni fosse un nevrotico? Che aveva il terrore dei temporali? Che passava giornate intere in preda alle vertigini? Che bastava un nonnulla per scaternarne l'angoscia? Altro che busto in marmo.