Manco da un po', lo so. Manco anche a me stessa.
Lascerò parlare questa foto, forse l'ultima scattata a Torino. Una specie di addio, o un avvertimento. Non so.
In questi mesi avrei voluto scriverlo davvero un addio. Un addio monti, ma al contrario. Tipo un heilà monti, visto che, a differenza della Lucia del Manzoni, io Lecco non la lascio, ma semmai la abbraccio. E con tutta me stessa.
Ma non era proprio quello che avevo in mente. Poi non sarebbe stato sufficiente, per Torino.
E del resto, forse, certe cose non si spiegano. Si fanno e basta. E il fatto, così come la nuda fotografia, come la scritta su un muro, è esposto alla libera interpretazione.
Lavora, consuma, muori. Come fosse una catena conseguenziale. Un sillogismo aristotelico.
E se non lavoro più, non consumo più, e non muoio più? Mm, non sempre le inversioni logiche funzionano. E di lavorare non sono riuscita ancora a fare a meno. Solo di uno stipendio. Ma ci lavorerò su.
Passo e chiudo.

Caro Presidente,
io pago le tasse. Mio padre paga le tasse. Il mio fidanzato paga le tasse.
E se un povero cristo come noi fa un infinitesimale sgarro ci confiscano anche la biancheria intima.
Come si fa a benedire un condono?
Nessun condono può essere giusto, a nessuna condizione. E le "gabole" non diventano buone azioni, anche con la scusa che sono a fin di bene.
Così non si fa altro che dare il benestare alla disonestà, alla propensione all'imbroglio e a quel mancato rispetto delle regole contro cui in Italia ci si batte, da decenni. E che gli italiani hanno, ed evidentemente sempre avranno, nel sangue.



Paolo Giordano vs. Michel Houellebecq

Attenzione: di seguito vengono svelate, in parte o del tutto, le trame delle opere.


Se avete trovato difficile da ingoiare "La solitudine dei numeri primi", non provateci nemmeno a buttar giù "Le particelle elementari". Per Giordano la vita è un boccone amaro? Per Houellebecq per di più è velenoso.

E se avete notato già dal titolo un'affinità tra i due libri, non sfibratevi con la dietrologia. Ve lo dico io, la parentela è stretta.
Per dirla con la fisica, gli atomi sono isotopi.
Per dirla con la matematica, i due insiemi sono intersecanti. Molto intersecanti.

Giordano non risponde alle accuse di plagio, che eppure circolano copiose nella rete. Dichiara solo di aver interrotto la lettura de "Le particelle elementari", uscito in Italia otto anni prima del suo romanzo, per evitare di esserne troppo influenzato mentre scriveva. Io temo l'abbia interrotta un po' troppo tardi.
Non voglio entrare nella sfera delle intenzioni del giovane autore. Quelle le sanno solo lui e il Padreterno. Io mi limito a constatare che ho letto Giordano; mesi dopo ho letto Houellebecq, che era parcheggiato sul mio comodino da quasi un anno; e ci sono rimasta di mxxda. Mi è sembrato subito tanto simile ai "numeri primi". Non uguale, per carità. Houellebecq è un numero più grosso. Più primo, io direi.
È più dotto, più nozionistico dell'italiano, ma anche più universale, più complesso. Il libro di Houellebecq è un librone, con un finale che, quello sì, ho molto gradito. A tre righe dalle parole "The End" Houellebecq ti dice che quella storia straziante che ti ha raccontato fin adesso non era altro che il nucleo di una matrioska più grande. Ti spiazza, ammantando tutto della luce di un immenso gioco cerebrale tra te e il narratore. Quelle cosine che a me piacciono, insomma.
Ecco, volendo giocare a "Trova le differenze" tra i due libri, la più macroscopica è questa: Giordano resta monocorde fino all'ultimo carattere tipografico.
In parole povere, fino a un certo punto i due libri si assomigliano. Ma la fine di Giordano è diversa da quella di Houellebecq. Forse semplicemente perché Giordano non è arrivato a leggerla la fine di Houellebecq. Già, lui si è interrotto prima.

Fieri del libro.

Cosa succede all’editoria libraria in tempo di crisi?
Succede che resta in piedi, con solo un lievissimo calo ponderale dello 0,6% nel 2008, secondo l’indagine NielsenBookScan.
Crescono nel 2008 i lettori in Italia e raggiungono il 44% della popolazione, in base ai dati Istat (era il 43,1% nel 2007).
Il mercato bambini e ragazzi addirittura cresce, del 10%. Yuppi.

(fonte: http://it.notizie.yahoo.com)
Uno che ha velleità di creativo e/o di scrittore prima o poi o molto spesso si trova di fronte ad un muro con sopra scritto: tanto, tutto è già stato detto.
Confrontarsi con i precedenti è doveroso. E doloroso, perché ti può capitare di trovarti tra le mani qualcosa che ti suscita una quantità di ammirazione tale, da essere pari alla tua stizza. Perché, perché è arrivato prima lui? Non ti dai pace.

C'è questo romanzo per esempio. L'ho preso dalla libreria di mia sorella. Ho scorso le prime pagine. Una prosa scorrevole andante, con in corpo una birretta o poco più.

Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d'albergo, (...). Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell'albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce a andandomene a letto.



Un personaggio fuori, in bilico tra genio e follia. Un Holden con appena qualche anno in più. Chiudo il libro, prendo tra le due mani la copertina. "Chiedi alla polvere" di John Fante. Scritto nel 1939.
Ti odio John Fante, perché hai inventato Arturo Bandini. Ti odio e ti amo. Ma soprattutto la seconda.
Venerdì 3 aprile sarò alla fiera del libro di Cascina (Pi) presso l'ITC Antonio Pesenti per incontrare i lettori di Scheggia e Storie della Natura.

Ore 9, Spazio incontri
Storie della Natura
Riservato all'Istituto comprensivo di Bientina

Ore 11, Biblioteca
Scheggia, assieme all'illustratrice Daria Palotti, mitica
Riservato agli Istituti comprensivi di Bientina e San Frediano

Schizzo.

Scrivo su commissione,
da un po’,
e non è troppo bello
essere killer di parole.
Mi pagano, il giusto
e nulla più,
per quanto possa esser giusto
vendere un rene.
A volte vorrei smettere
e regalare
l’unica cosa che so fare.
Ma sono pusher,
spaccio
bei vocaboli,
li metto in riga,
loro si fanno comandare.
Di questo io campo,
ogni giorno profanando
il solo Dio a cui abbia mai creduto.
Ne faccio simonia,
lo faccio prostituire,
e assieme a lui mi prostituisco pure io.
Di quando in quando è divertente il mio potere,
di volta in volta nessuna causa ha abbastanza perché,
ma non importa,
ch’io ne scriva una preghiera
o un epitaffio,
è tutto uguale,
nessuno s'è mai avuto a lamentare.
Nemmeno lui, in persona,
fosse soltanto
perché lui, senza di me, non può parlare.

Torino, 18 febbraio 2009



Ieri, nella sala d’attesa del dottore, ho assistito impotente, con la faccia conficcata in un Donna Moderna dell’estate passata – di per sé già un ossimoro -, al seguente dialogo:
-No, io solo macchina. Il pullman non lo prendo. Non lo prendo più dal 1952.
-Eh sì, e come si fa?
-Con la feccia che c’è sopra.
-Che schifo.
-Che gentaglia.
-Che porcheria. Povera Italia.
-Eh davvero.
-Io lo dico sempre. Si stava meglio quando c’era lui.
-Ben detto.
-Quando c’era lui e si usciva per strada era tutto pulito, tutto in ordine. Io me lo ricordo.

Certo, vecchia stxxxza babbiona. Peccato che tu non ti ricorda di un altro paio di cosette, di quando c’era lui.
Questo l’ho solo pensato, lo confesso, perché in quel momento la segretaria del dottore ha chiamato all’appello “Di Maggio”. Mi sono alzata, e con la forza del mio cognome terrone ho guardato quelle due peppie torinesi vestite di animali morti. Ho pensato a tutte le volte che sono stata feccia con la feccia sugli autobus. A tutti i treni pulciosi. E a tutti quei treni pulciosi che hanno preso 40/50 anni fa altri terroni come me, per venire proprio qua. A costruire le loro macchinine. Ho pensato a “La storia siamo noi”, e ai documentari sul fascismo.
E pure a tutte le volte che mi sono chiesta chi votava Berlusconi.
E nel mio groviglio di disperazione, mentre ripetevo a me stessa che sì, era proprio vero quello che avevo sentito, nonostante sembrasse la classica storiella da stereotipo, ho realizzato che su un punto ero d’accordo. E ho mormorato anch’io, tra i denti:
“Povera Italia”.

Aspettando Godot, Teatro Out Off, Milano.
15 febbraio 2009.

L’aspettavo da 3 anni, Godot.
Poi mi ha dato un pugno nello stomaco. Ma non si è presentato.
Si è fatto aspettare ancora.















Siamo tutti come Vladimiro ed Estragone. Coltiviamo una speranza su un terreno sterile. Aspettiamo, aspettiamo qualcosa che nemmeno sappiamo cosa sia.
Viviamo proiettati sul domani, che domani sarà oggi. E sarà uguale.
Perché ogni sera moriamo e ogni mattina risorgiamo, ma sempre cenere siamo, e torneremo. Come diceva qualcuno.
Per Beckett non c’è gioia, nemmeno nell’attesa. Nemmeno nell’ingannare il tempo. Perché è già il tempo ad ingannare noi.
Nello stare insieme no, non c’è felicità, perché in fondo lo sappiamo: sarebbe meglio separarsi.
Non c’è soddisfazione manco a respirare. Sarebbe meglio suicidarsi, eppure continuiamo a vivere. E a vivere insieme. Aspettando, aspettando, aspettando Godot. O chi per lui.
Questo dramma – ma perché poi teatro dell’assurdo? Cosa c’è di assurdo nel raccontare la verità? – non parla di Dio/God/Godot. Parla dell’Attesa.
Della vita, che è una sala d’attesa. Dove potremo incontrare carnefici ciechi (Pozzo) e vittime mute (Lucky), comparse e ambasciatori. Ma dove, sostanzialmente, non accadrà mai niente. Di niente. Di niente.
Ecco, adesso il pugno nello stomaco l’ho restituito, almeno in parte.
Perché forse solo quello rimane. Fare come Beckett, raccontare la verità. Svegliare gli animi sopiti. Spogliare gli occhi dal velo di Maya. Soffiare via la fuffa in cui ci siamo raggomitolati. Per non sentire il freddo, il dolore, la fame, la sete. E l’inutilità del tutto.

Non lo so, però, se è proprio così.
Comunque fa male accettarlo. Mi fa male credere che la mia vita sia solo un ammasso di giorni ripetuti.
Che cxxxo dovrei fare allora? E a che servirebbe?
Non è un po’ un incitamento all’immobilismo, quello di Beckett? Sì, certo, sicuro, che domande.
L’unico spiraglio che vedo è dato da Beckett stesso. Almeno lui, assurgendosi un po’ a Godot, o quantomeno a giudice e osservatore neutro, un minimo si salva. Ai miei occhi. Potrei credere nella “superiorità dell’artista”, nel suo ruolo moralizzatore. Potrei buttarmi sulla scrittura (come su qualsiasi altra cosa) distribuendo pugni nello stomaco e spargendo la voce che siamo tutti fritti. Che siamo solo cenere. Solo barboni pezzenti.
Mmm, ci devo pensare.
O forse non ci devo pensare?
No no, ci devo pensare.
Ma che ci penso a fare? Io non ci posso credere a uno che mi dice che la verità è quella e solo quella. Non ho creduto alla chiesa, perché dovrei credere a un drammaturgo? Che per giunta vuole convincermi che siamo tutti condannati all’ergastolo. Che poi è la vita.
Che siamo arabe fenici.
Credo di più a chi mi racconta le diverse verità, chi mi insegna a relativizzare.
Forse perché non lo accetto il messaggio di Beckett, o perché ne trovo altrettanto interessanti molti altri.
Forse perché odio aspettare. Preferisco andarmene.

Magari Beckett è meno assolutista di come l’ho dipinto io.
Sicuramente è un grande, e non servo io a dirlo.
Ha fatto un’operazione di sintesi estrema in quest’opera, ha denudato la condizione umana di tutti i fronzoli e l’ha messa in scena con una metafora – e una coppia – che a mio modesto avviso è meglio del duo Adamo&Eva.

Soprattutto se incarnati da Mario Sala e Gigio Alberti, al Teatro Out Off di Milano. Molto bravi, mi hanno fatto piangere a due ore di distanza. In mezzo all’atrio della Stazione Centrale. Ma forse era per il pensiero che l’indomani era lunedì.
E dunque, alla fine della fiera, i giorni non sono tutti uguali!
Sto facendo confusione, ho detto tutto e il contrario di tutto.
Cioè ottut.
Che è sempre meglio di ottuso.

Concludo. Non so, quindi, caro zio Sam. Non so come la metabolizzerò questa mxxxa che mi hai fatto mangiare. Però, che dirti? Mi è piaciuta molto. Una pietra miliare non solo nella letteratura e nel teatro, ma anche nella vita di chiunque si trovi ad aspettare Godot, per una sera o un pomeriggio, o tre anni. O una vita.

P.S.: Caro zio Sam, un’ultima cosa: non sono a conoscenza di quali siano state le tue abitudini ma, in definitiva, viste le tue visioni esistenziali, mi auguro che almeno tu ti drogassi.

Baci, Dena

Mi sono innamorata di Holga.



Sto esplorando nuove modalità espressive. La scrittura non è dimenticata, tutt'altro. Ma ogni tanto mi occorre tradirla, per tornare da lei con più trasporto, più nuova linfa, più inventiva.
Ragionamento che non vale per i rapporti sentimentali, questo si sappia.

Da wikipedia.it
"Holga è la macchina fotografica economica (definita anche toy camera) prodotta dall'azienda russa LOMO (Leningradskoye Optiko-Mechanichesckoye Obyedinenie) per il mercato cinese a partire dal 1982 e fabbricata ad Hong Kong.

La costruzione poco costosa e la semplice lente a menisco delle macchine fotografiche Holga spesso produce foto che presentano vignettature, sfocature, scarsa illuminazione ed altre distorsioni che ne costituiscono la cifra stilistica.
(…)
In effetti tecnicamente la macchina è piena di difetti, ed anche il prezzo non è a buon mercato, (…). Però i possessori della Holga hanno trasformato tutti i suoi difetti (…) in vantaggi per produrre della fotografia creativa."

Lo sapevate che?



Created by Karl Fisch, and modified by Scott McLeod. Credits are also given to Jeff Brenman.