L’aspettavo da 3 anni, Godot.
Poi mi ha dato un pugno nello stomaco. Ma non si è presentato.
Si è fatto aspettare ancora.
Siamo tutti come Vladimiro ed Estragone. Coltiviamo una speranza su un terreno sterile. Aspettiamo, aspettiamo qualcosa che nemmeno sappiamo cosa sia.
Viviamo proiettati sul domani, che domani sarà oggi. E sarà uguale.
Perché ogni sera moriamo e ogni mattina risorgiamo, ma sempre cenere siamo, e torneremo. Come diceva qualcuno.
Per Beckett non c’è gioia, nemmeno nell’attesa. Nemmeno nell’ingannare il tempo. Perché è già il tempo ad ingannare noi.
Nello stare insieme no, non c’è felicità, perché in fondo lo sappiamo: sarebbe meglio separarsi.
Non c’è soddisfazione manco a respirare. Sarebbe meglio suicidarsi, eppure continuiamo a vivere. E a vivere insieme. Aspettando, aspettando, aspettando Godot. O chi per lui.
Questo dramma – ma perché poi teatro dell’assurdo? Cosa c’è di assurdo nel raccontare la verità? – non parla di Dio/God/Godot. Parla dell’Attesa.
Della vita, che è una sala d’attesa. Dove potremo incontrare carnefici ciechi (Pozzo) e vittime mute (Lucky), comparse e ambasciatori. Ma dove, sostanzialmente, non accadrà mai niente. Di niente. Di niente.
Ecco, adesso il pugno nello stomaco l’ho restituito, almeno in parte.
Perché forse solo quello rimane. Fare come Beckett, raccontare la verità. Svegliare gli animi sopiti. Spogliare gli occhi dal velo di Maya. Soffiare via la fuffa in cui ci siamo raggomitolati. Per non sentire il freddo, il dolore, la fame, la sete. E l’inutilità del tutto.
Non lo so, però, se è proprio così.
Comunque fa male accettarlo. Mi fa male credere che la mia vita sia solo un ammasso di giorni ripetuti.
Che cxxxo dovrei fare allora? E a che servirebbe? Non è un po’ un incitamento all’immobilismo, quello di Beckett? Sì, certo, sicuro, che domande.
L’unico spiraglio che vedo è dato da Beckett stesso. Almeno lui, assurgendosi un po’ a Godot, o quantomeno a giudice e osservatore neutro, un minimo si salva. Ai miei occhi. Potrei credere nella “superiorità dell’artista”, nel suo ruolo moralizzatore. Potrei buttarmi sulla scrittura (come su qualsiasi altra cosa) distribuendo pugni nello stomaco e spargendo la voce che siamo tutti fritti. Che siamo solo cenere. Solo barboni pezzenti.
Mmm, ci devo pensare.
O forse non ci devo pensare?
No no, ci devo pensare.
Ma che ci penso a fare? Io non ci posso credere a uno che mi dice che la verità è quella e solo quella. Non ho creduto alla chiesa, perché dovrei credere a un drammaturgo? Che per giunta vuole convincermi che siamo tutti condannati all’ergastolo. Che poi è la vita.
Che siamo arabe fenici.
Credo di più a chi mi racconta le diverse verità, chi mi insegna a relativizzare.
Forse perché non lo accetto il messaggio di Beckett, o perché ne trovo altrettanto interessanti molti altri.
Forse perché odio aspettare. Preferisco andarmene.
Magari Beckett è meno assolutista di come l’ho dipinto io.
Sicuramente è un grande, e non servo io a dirlo.
Ha fatto un’operazione di sintesi estrema in quest’opera, ha denudato la condizione umana di tutti i fronzoli e l’ha messa in scena con una metafora – e una coppia – che a mio modesto avviso è meglio del duo Adamo&Eva.
Soprattutto se incarnati da Mario Sala e Gigio Alberti, al Teatro Out Off di Milano. Molto bravi, mi hanno fatto piangere a due ore di distanza. In mezzo all’atrio della Stazione Centrale. Ma forse era per il pensiero che l’indomani era lunedì.
E dunque, alla fine della fiera, i giorni non sono tutti uguali!
Sto facendo confusione, ho detto tutto e il contrario di tutto.
Cioè ottut.
Che è sempre meglio di ottuso.
Concludo. Non so, quindi, caro zio Sam. Non so come la metabolizzerò questa mxxxa che mi hai fatto mangiare. Però, che dirti? Mi è piaciuta molto. Una pietra miliare non solo nella letteratura e nel teatro, ma anche nella vita di chiunque si trovi ad aspettare Godot, per una sera o un pomeriggio, o tre anni. O una vita.
P.S.: Caro zio Sam, un’ultima cosa: non sono a conoscenza di quali siano state le tue abitudini ma, in definitiva, viste le tue visioni esistenziali, mi auguro che almeno tu ti drogassi.
Baci, Dena
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