Schizzo.

Scrivo su commissione,
da un po’,
e non è troppo bello
essere killer di parole.
Mi pagano, il giusto
e nulla più,
per quanto possa esser giusto
vendere un rene.
A volte vorrei smettere
e regalare
l’unica cosa che so fare.
Ma sono pusher,
spaccio
bei vocaboli,
li metto in riga,
loro si fanno comandare.
Di questo io campo,
ogni giorno profanando
il solo Dio a cui abbia mai creduto.
Ne faccio simonia,
lo faccio prostituire,
e assieme a lui mi prostituisco pure io.
Di quando in quando è divertente il mio potere,
di volta in volta nessuna causa ha abbastanza perché,
ma non importa,
ch’io ne scriva una preghiera
o un epitaffio,
è tutto uguale,
nessuno s'è mai avuto a lamentare.
Nemmeno lui, in persona,
fosse soltanto
perché lui, senza di me, non può parlare.

Torino, 18 febbraio 2009



Ieri, nella sala d’attesa del dottore, ho assistito impotente, con la faccia conficcata in un Donna Moderna dell’estate passata – di per sé già un ossimoro -, al seguente dialogo:
-No, io solo macchina. Il pullman non lo prendo. Non lo prendo più dal 1952.
-Eh sì, e come si fa?
-Con la feccia che c’è sopra.
-Che schifo.
-Che gentaglia.
-Che porcheria. Povera Italia.
-Eh davvero.
-Io lo dico sempre. Si stava meglio quando c’era lui.
-Ben detto.
-Quando c’era lui e si usciva per strada era tutto pulito, tutto in ordine. Io me lo ricordo.

Certo, vecchia stxxxza babbiona. Peccato che tu non ti ricorda di un altro paio di cosette, di quando c’era lui.
Questo l’ho solo pensato, lo confesso, perché in quel momento la segretaria del dottore ha chiamato all’appello “Di Maggio”. Mi sono alzata, e con la forza del mio cognome terrone ho guardato quelle due peppie torinesi vestite di animali morti. Ho pensato a tutte le volte che sono stata feccia con la feccia sugli autobus. A tutti i treni pulciosi. E a tutti quei treni pulciosi che hanno preso 40/50 anni fa altri terroni come me, per venire proprio qua. A costruire le loro macchinine. Ho pensato a “La storia siamo noi”, e ai documentari sul fascismo.
E pure a tutte le volte che mi sono chiesta chi votava Berlusconi.
E nel mio groviglio di disperazione, mentre ripetevo a me stessa che sì, era proprio vero quello che avevo sentito, nonostante sembrasse la classica storiella da stereotipo, ho realizzato che su un punto ero d’accordo. E ho mormorato anch’io, tra i denti:
“Povera Italia”.

Aspettando Godot, Teatro Out Off, Milano.
15 febbraio 2009.

L’aspettavo da 3 anni, Godot.
Poi mi ha dato un pugno nello stomaco. Ma non si è presentato.
Si è fatto aspettare ancora.















Siamo tutti come Vladimiro ed Estragone. Coltiviamo una speranza su un terreno sterile. Aspettiamo, aspettiamo qualcosa che nemmeno sappiamo cosa sia.
Viviamo proiettati sul domani, che domani sarà oggi. E sarà uguale.
Perché ogni sera moriamo e ogni mattina risorgiamo, ma sempre cenere siamo, e torneremo. Come diceva qualcuno.
Per Beckett non c’è gioia, nemmeno nell’attesa. Nemmeno nell’ingannare il tempo. Perché è già il tempo ad ingannare noi.
Nello stare insieme no, non c’è felicità, perché in fondo lo sappiamo: sarebbe meglio separarsi.
Non c’è soddisfazione manco a respirare. Sarebbe meglio suicidarsi, eppure continuiamo a vivere. E a vivere insieme. Aspettando, aspettando, aspettando Godot. O chi per lui.
Questo dramma – ma perché poi teatro dell’assurdo? Cosa c’è di assurdo nel raccontare la verità? – non parla di Dio/God/Godot. Parla dell’Attesa.
Della vita, che è una sala d’attesa. Dove potremo incontrare carnefici ciechi (Pozzo) e vittime mute (Lucky), comparse e ambasciatori. Ma dove, sostanzialmente, non accadrà mai niente. Di niente. Di niente.
Ecco, adesso il pugno nello stomaco l’ho restituito, almeno in parte.
Perché forse solo quello rimane. Fare come Beckett, raccontare la verità. Svegliare gli animi sopiti. Spogliare gli occhi dal velo di Maya. Soffiare via la fuffa in cui ci siamo raggomitolati. Per non sentire il freddo, il dolore, la fame, la sete. E l’inutilità del tutto.

Non lo so, però, se è proprio così.
Comunque fa male accettarlo. Mi fa male credere che la mia vita sia solo un ammasso di giorni ripetuti.
Che cxxxo dovrei fare allora? E a che servirebbe?
Non è un po’ un incitamento all’immobilismo, quello di Beckett? Sì, certo, sicuro, che domande.
L’unico spiraglio che vedo è dato da Beckett stesso. Almeno lui, assurgendosi un po’ a Godot, o quantomeno a giudice e osservatore neutro, un minimo si salva. Ai miei occhi. Potrei credere nella “superiorità dell’artista”, nel suo ruolo moralizzatore. Potrei buttarmi sulla scrittura (come su qualsiasi altra cosa) distribuendo pugni nello stomaco e spargendo la voce che siamo tutti fritti. Che siamo solo cenere. Solo barboni pezzenti.
Mmm, ci devo pensare.
O forse non ci devo pensare?
No no, ci devo pensare.
Ma che ci penso a fare? Io non ci posso credere a uno che mi dice che la verità è quella e solo quella. Non ho creduto alla chiesa, perché dovrei credere a un drammaturgo? Che per giunta vuole convincermi che siamo tutti condannati all’ergastolo. Che poi è la vita.
Che siamo arabe fenici.
Credo di più a chi mi racconta le diverse verità, chi mi insegna a relativizzare.
Forse perché non lo accetto il messaggio di Beckett, o perché ne trovo altrettanto interessanti molti altri.
Forse perché odio aspettare. Preferisco andarmene.

Magari Beckett è meno assolutista di come l’ho dipinto io.
Sicuramente è un grande, e non servo io a dirlo.
Ha fatto un’operazione di sintesi estrema in quest’opera, ha denudato la condizione umana di tutti i fronzoli e l’ha messa in scena con una metafora – e una coppia – che a mio modesto avviso è meglio del duo Adamo&Eva.

Soprattutto se incarnati da Mario Sala e Gigio Alberti, al Teatro Out Off di Milano. Molto bravi, mi hanno fatto piangere a due ore di distanza. In mezzo all’atrio della Stazione Centrale. Ma forse era per il pensiero che l’indomani era lunedì.
E dunque, alla fine della fiera, i giorni non sono tutti uguali!
Sto facendo confusione, ho detto tutto e il contrario di tutto.
Cioè ottut.
Che è sempre meglio di ottuso.

Concludo. Non so, quindi, caro zio Sam. Non so come la metabolizzerò questa mxxxa che mi hai fatto mangiare. Però, che dirti? Mi è piaciuta molto. Una pietra miliare non solo nella letteratura e nel teatro, ma anche nella vita di chiunque si trovi ad aspettare Godot, per una sera o un pomeriggio, o tre anni. O una vita.

P.S.: Caro zio Sam, un’ultima cosa: non sono a conoscenza di quali siano state le tue abitudini ma, in definitiva, viste le tue visioni esistenziali, mi auguro che almeno tu ti drogassi.

Baci, Dena

Mi sono innamorata di Holga.



Sto esplorando nuove modalità espressive. La scrittura non è dimenticata, tutt'altro. Ma ogni tanto mi occorre tradirla, per tornare da lei con più trasporto, più nuova linfa, più inventiva.
Ragionamento che non vale per i rapporti sentimentali, questo si sappia.

Da wikipedia.it
"Holga è la macchina fotografica economica (definita anche toy camera) prodotta dall'azienda russa LOMO (Leningradskoye Optiko-Mechanichesckoye Obyedinenie) per il mercato cinese a partire dal 1982 e fabbricata ad Hong Kong.

La costruzione poco costosa e la semplice lente a menisco delle macchine fotografiche Holga spesso produce foto che presentano vignettature, sfocature, scarsa illuminazione ed altre distorsioni che ne costituiscono la cifra stilistica.
(…)
In effetti tecnicamente la macchina è piena di difetti, ed anche il prezzo non è a buon mercato, (…). Però i possessori della Holga hanno trasformato tutti i suoi difetti (…) in vantaggi per produrre della fotografia creativa."

Lo sapevate che?



Created by Karl Fisch, and modified by Scott McLeod. Credits are also given to Jeff Brenman.