“Se ricominciassi la mia vita, penso che mi piacerebbe far carriera in pubblicità.”
F. D. Roosevelt
“Se ricominciassi la mia vita, penso che mi piacerebbe far carriera.”
D.D.M., pubblicitaria
Pensieri, parole, opere e omissioni di una scrittrice in erba,
una copywriter freelance in tempo di crisi, una spiantata trapiantata a Lecco.
Certe volte mi succede che vorrei ingerire una di quelle pillole dei cartoni della Disney, che ti fanno rimpicciolire seduta stante e diventare una specie di Campanellino lillipuziana.
Poi vorrei piegarmi in tre, come una sedia a sdraio.
E infine farmi risucchiare da una macchina per fare il sottovuoto.
Messa così, vorrei poi entrare in un cassetto nascosto di un secretaire sepolto in un ammuffito negozio di antiquariato.
Oppure nella cuccia del cane.
O, ancora meglio, nel castello delle bambole in soffitta.
Poi vorrei chiudere la serratura, da dentro.
Infine, ingoiare la chiave.
E nutrirmi di limoni per il resto dell'esistenza, nel tentativo di restare stitica per sempre.
Poi vorrei piegarmi in tre, come una sedia a sdraio.
E infine farmi risucchiare da una macchina per fare il sottovuoto.
Messa così, vorrei poi entrare in un cassetto nascosto di un secretaire sepolto in un ammuffito negozio di antiquariato.
Oppure nella cuccia del cane.
O, ancora meglio, nel castello delle bambole in soffitta.
Poi vorrei chiudere la serratura, da dentro.
Infine, ingoiare la chiave.
E nutrirmi di limoni per il resto dell'esistenza, nel tentativo di restare stitica per sempre.
Pictures from Budapest.
My prototype.
Da wikipedia:
INTJ (Introversione, iNtuito, Thinking, Judging) è un acronimo che indica uno dei sedici tipi contemplati dal test “Myers-Briggs Type Indicator”. Il fondamento del MBTI fu sviluppato a partire dal lavoro dello psichiatra Carl Jung nel suo libro “Tipi psicologici”. […]
Secondo Myers-Briggs, gli INTJ sono persone molto analitiche. […] si trovano meglio a lavorare da soli piuttosto che in squadra e normalmente non sono socievoli come la maggior parte delle persone. Tendono a non mettersi in mostra, ma sono pronti a prendere una posizione di comando quando nessuno vuole prendersi la responsabilità. […] Normalmente non riconoscono l'autorità basata sulla tradizione, sul grado o su un qualche tipo di titolo.
Gli INTJ sono grandi individualisti che cercano nuove prospettive o nuovi modi di vedere le cose. Sono deduttivi e veloci nel ragionamento, tuttavia questo non si manifesta sempre agli altri, in quanto trattengono molto dentro di loro.
Tra i sedici tipi di personalità, possono essere considerato quello con più indipendenza di tutti. […]
Caratteristiche distintive del tipo di personalità INTJ includono il pensiero indipendente, forte individualismo e creatività. Persone che appartengono a questo gruppo lavorano al loro meglio quando viene loro data una grande quantità di autonomia creativa. Racchiudono in loro un innato senso di esprimersi creativamente concettualizzando i loro progetti mentali.
Le relazioni interpersonali […] possono essere il tallone d'Achille di un INTJ. Questo accade in parte perché molti INTJ non afferrano prontamente i rituali sociali.
Probabilmente il problema fondamentale, tuttavia, è che gli INTJ vorrebbero veramente che la persone avessero un senso.
[…] questo tipo estremamente raro nella popolazione: secondo David Keirsey (che ha definito gli INTJ come i Masterminds, o “gli scienziati”) si può trovare solo circa nel 1% del campione.
Potete fare il test qui.
Gang band.
Solo una sana e consapevole libidine...
Vorrei spendere una parola a favore di una forma di intrattenimento bistrattata. Le serate lucide.
C'ho quasi 28 anni e posso permettermelo, credo, senza passare eccessivamente per sfigata, per apollinea o per cattolica.
Le serate lucide sono quelle serate di astinenza da alcool o da qualsiasi altro coadiuvante dello sballo, durante le quali non solo capisci esattamente:
quello che succede attorno a te;
se il gruppo suona di mxxxa o da panico;
e se i tuoi amici si divertono per davvero o sono sotto un qualche effetto.
Ma in più:
non sei distolto dalla fame chimica o da ogni trip mentale che ti può sovvenire in caso di stato di coscienza alterato.
E quando arrivi a casa, sebbene siano le quattro e il giorno dopo lavori, hai pure la forza:
di spogliarti;
di struccarti;
di lavarti i denti;
di darti 100 colpi di spazzola, ma ne bastano meno;
e di scrivere. Come me, adesso. Scrivere. Anche solo un mucchio di idiozie che nessuno ti ha chiesto, che nessuno leggerà e che sarebbero state tranquillamente evitabili se al rientro a casa fossi stato talmente sbronzo dal cadere in coma sul materasso. Come fanno tutti.
I migliori libri per ragazzi del 2007. Io ci sono.
Ogni anno, sulla base delle indicazioni delle librerie per ragazzi di tutta Italia, viene compilata la Guida Librazzi: la graduatoria dei migliori libri illustrati per l'infanzia.
Quest'anno ci sono anch'io: "Scheggia" è tra i primi 50 libri preferiti dai librai specializzati, tra quelli usciti nel 2007. Precisamente, io e Scheggia siamo al 46° posto.
Oh come mi scialo.
Grazie.
Quest'anno ci sono anch'io: "Scheggia" è tra i primi 50 libri preferiti dai librai specializzati, tra quelli usciti nel 2007. Precisamente, io e Scheggia siamo al 46° posto.
Oh come mi scialo.
Grazie.
Noi ci divertiamo così.
Faceyourpockets è un progetto web russo. Un cosiddetto user-generated site. Che in italiano vuol dire un sito con contenuto generato dai visitatori.
È una raccolta di foto, in poche parole, ma molto particolari: le scansioni di facce di persone corredate da tutto quello che hanno in borsa.
Una radiografia empirica della loro vita, insomma.
Non accurata, non completa, non oggettiva. Ma interessante quasi quanto un autoritratto o una poesia autobiografica.
Mica come Facebook. Che dopo due giorni di indigestione internautica - dopo che hai trovato tuo cugino in America, i compagni dell'asilo, gli ex-colleghi e ti sei fatta amica qualche mente illuminata come Nicoletti o Saviano - ti ha già stramazzato i cosiddetti e puoi solo stare lì davanti a un pezzo di sushi di pixel o un test su chi eri nella tua vita precedente a chiederti: ma a che serve? Io, qua, che ci sto a fare?
Ecco, per una volta, non lasciamo parlare la fuffa ma solo le immagini. Che ci dicono chi siamo e, soprattutto, cosa vogliamo essere per gli altri.
Infatti, io propongo di usarle sulle pietre tombali. Sembreremmo dei corpi compressi in feretri che smaniano per uscire. Che poi è quello che un po' tutti, a volte, siamo.
È una raccolta di foto, in poche parole, ma molto particolari: le scansioni di facce di persone corredate da tutto quello che hanno in borsa.
Una radiografia empirica della loro vita, insomma.
Non accurata, non completa, non oggettiva. Ma interessante quasi quanto un autoritratto o una poesia autobiografica.
Mica come Facebook. Che dopo due giorni di indigestione internautica - dopo che hai trovato tuo cugino in America, i compagni dell'asilo, gli ex-colleghi e ti sei fatta amica qualche mente illuminata come Nicoletti o Saviano - ti ha già stramazzato i cosiddetti e puoi solo stare lì davanti a un pezzo di sushi di pixel o un test su chi eri nella tua vita precedente a chiederti: ma a che serve? Io, qua, che ci sto a fare?
Ecco, per una volta, non lasciamo parlare la fuffa ma solo le immagini. Che ci dicono chi siamo e, soprattutto, cosa vogliamo essere per gli altri.
Infatti, io propongo di usarle sulle pietre tombali. Sembreremmo dei corpi compressi in feretri che smaniano per uscire. Che poi è quello che un po' tutti, a volte, siamo.
Noidifornacette.
Lo staff di noidifornacette.it, il portale dei fornacellesi, ha pubblicato un comunicato che mi riguarda. Grazie!
Lo sbarco in Corea.
La casa editrice coreana Mirae Media&Books ha acquistato i diritti di "Storie della Natura" e tradotto il libro in coreano.
Figata.
Figata.
Scheggia a scuola.
"Scheggia", il mio secondo libro, è al centro di un progetto scolastico molto carino e intelligente (giudizio di parte?) nelle scuole di Vecchiano, Pisa.
Guardate.
Inoltre la biblioteca di Vecchiano e quella di San Giuliano Terme hanno bandito un simpatico concorso per inventare un finale diverso ad una serie di libri. Tra i quali "Scheggia".
Per dovere di cronaca, ma soprattutto di gratitudine, riporto il bando e la locandina.
Guardate.
Inoltre la biblioteca di Vecchiano e quella di San Giuliano Terme hanno bandito un simpatico concorso per inventare un finale diverso ad una serie di libri. Tra i quali "Scheggia".
Per dovere di cronaca, ma soprattutto di gratitudine, riporto il bando e la locandina.
Siamo numeri o caporali?
Sottotitolo. Attenzione: di seguito viene rivelata, del tutto o in parte, la trama dell'opera.
Non mi capita spesso di leggere uno scrittore più triste di me.
E quando ho letto “La solitudine dei numeri primi” ho pensato proprio questo. Caspita, nemmeno io avrei saputo scrivere un libro così addolorato.
Ci voleva proprio un fisico bestiale.
Nel senso che ci voleva proprio un credo scientifico e materialistico feroce per vederla come Paolo Giordano, questo ragazzo dell’82 laureato in fisica teorica e impiegato all’Università con una borsa di dottorato, che quest’anno se n’è uscito con le suddette 312 pagine intrise di fatalismo cosmico.
I protagonisti Mattia e Alice sono due ai quali la vita ha falciato le gambe in partenza, in un caso in senso metaforico, nell’altro in senso letterale.
Una disgrazia, in parte imputabile a loro incuria, ha segnato il loro futuro al punto da tradursi in ferite, ma ferite vere, tagli che sanguinano, piaghe che dolgono.
Stimmate che per una vita intera ciascuno di loro (ciascuno di noi?) si porterà appresso. Senza via di scampo.
È la fisica, baby. Causa chiama conseguenza.
Mattia da piccolo ha causato la scomparsa della gemellina. Quindi: diventa autolesionista e asociale, si attacca morbosamente alla matematica e dopo 30 anni ancora non bada ad altro che ai numeri.
Alice a 7 anni ha avuto un incidente di sci ed ha una gamba offesa. Quindi: diventa anoressica e concentrata su se stessa. Quindi non vuole un figlio, quindi rifiuta il sesso, quindi non riuscirà mai ad avere una relazione stabile. O a trovare la sua anima gemella.
Perché? Perché non c’è, perché loro due sono numeri primi, condannati a riconoscersi come speciali ma destinati a non incontrarsi mai.
Vale per tutti? Questo non lo so, dal libro non l’ho capito. Se i due protagonisti stiano a simbolo di tutta l’umanità o se siano da considerare mosche rare.
Probabilmente sì, sono davvero solo due eroi tragici. E noialtri, che siamo numeri normali, non dovremmo poi passarcela così male. Spero.
Qualunque sia l’interpretazione, l’universo dipinto da Giordano pare perfino a me, che un po’ leopardiana lo sarò sempre, troppo funesto, troppo irreversibile, troppo tragedia greca.
Possibile che Mattia e Alice, possibile che ognuno di noi non possa fare niente per cancellare queste benedette stimmate e andare avanti? Oppure tornare indietro e ricominciare, tracciare un’altra strada, costruirsi un destino diverso, meno imposto, meno consequenziale?
Io non sono riuscita a rassegnarmi. Quando sono arrivata a pagina 312, non potevo credere che non ci fosse stato almeno un guizzo, un solco abbozzato, un misero tentativo, purché convinto, di invertire il fato. Così, tanto per campà. Invece niente.
Siamo solo dei numeri, a quanto pare.
E a questo punto meglio nascere numeri normali. Meglio nascere, che so, come l’8.
Che perlomeno, diciamolo chiaro, c’ha le palle.
P.S.: Il libro, in ogni modo, mi è piaciuto. Bravo Paolo.
Non mi capita spesso di leggere uno scrittore più triste di me.
E quando ho letto “La solitudine dei numeri primi” ho pensato proprio questo. Caspita, nemmeno io avrei saputo scrivere un libro così addolorato.
Ci voleva proprio un fisico bestiale.
Nel senso che ci voleva proprio un credo scientifico e materialistico feroce per vederla come Paolo Giordano, questo ragazzo dell’82 laureato in fisica teorica e impiegato all’Università con una borsa di dottorato, che quest’anno se n’è uscito con le suddette 312 pagine intrise di fatalismo cosmico.
I protagonisti Mattia e Alice sono due ai quali la vita ha falciato le gambe in partenza, in un caso in senso metaforico, nell’altro in senso letterale.
Una disgrazia, in parte imputabile a loro incuria, ha segnato il loro futuro al punto da tradursi in ferite, ma ferite vere, tagli che sanguinano, piaghe che dolgono.
Stimmate che per una vita intera ciascuno di loro (ciascuno di noi?) si porterà appresso. Senza via di scampo.
È la fisica, baby. Causa chiama conseguenza.
Mattia da piccolo ha causato la scomparsa della gemellina. Quindi: diventa autolesionista e asociale, si attacca morbosamente alla matematica e dopo 30 anni ancora non bada ad altro che ai numeri.
Alice a 7 anni ha avuto un incidente di sci ed ha una gamba offesa. Quindi: diventa anoressica e concentrata su se stessa. Quindi non vuole un figlio, quindi rifiuta il sesso, quindi non riuscirà mai ad avere una relazione stabile. O a trovare la sua anima gemella.
Perché? Perché non c’è, perché loro due sono numeri primi, condannati a riconoscersi come speciali ma destinati a non incontrarsi mai.
Vale per tutti? Questo non lo so, dal libro non l’ho capito. Se i due protagonisti stiano a simbolo di tutta l’umanità o se siano da considerare mosche rare.
Probabilmente sì, sono davvero solo due eroi tragici. E noialtri, che siamo numeri normali, non dovremmo poi passarcela così male. Spero.
Qualunque sia l’interpretazione, l’universo dipinto da Giordano pare perfino a me, che un po’ leopardiana lo sarò sempre, troppo funesto, troppo irreversibile, troppo tragedia greca.
Possibile che Mattia e Alice, possibile che ognuno di noi non possa fare niente per cancellare queste benedette stimmate e andare avanti? Oppure tornare indietro e ricominciare, tracciare un’altra strada, costruirsi un destino diverso, meno imposto, meno consequenziale?
Io non sono riuscita a rassegnarmi. Quando sono arrivata a pagina 312, non potevo credere che non ci fosse stato almeno un guizzo, un solco abbozzato, un misero tentativo, purché convinto, di invertire il fato. Così, tanto per campà. Invece niente.
Siamo solo dei numeri, a quanto pare.
E a questo punto meglio nascere numeri normali. Meglio nascere, che so, come l’8.
Che perlomeno, diciamolo chiaro, c’ha le palle.
P.S.: Il libro, in ogni modo, mi è piaciuto. Bravo Paolo.
Primo maggio davanti al quaranta pollici.
Il cantante è un mio collega.
Per chi se lo fosse chiesto: la risposta è sì; è una proprietà dei copy quella di essere "mancati/aspiranti scrittori", "mancati/aspiranti cantanti", "mancati/aspiranti sceneggiatori", eccetera.
Per approfondimenti si rimanda all'assioma "L'arte non paga", altrimenti detto "D'altronde, s'adda campà".
Intervista con la vampira.
Definizione di "coppia".
Quando una quasi ventottenne si ritrova alle otto del mattino in pigiama con le cispe agli occhi a stirare una camicia di Armani con un ferro da stiro Termozeta ancora odorante di plastica pensando “Vieni via pieghetta che da camicia nasce contratto e da contratto nasce imprenditore con mantenuta quasi ventottenne votata solo al mestiere di scrittrice”, quella è "coppia".
Definizione di "casa".
Is this "The End"?
Quando uno scrittore appone la parola “fine” all’ultima pagina del suo libro, si sente come il padre che fa ciao per sempre al figlio che se ne va di casa.
Svuotato, e un po’ orfano.
Avrò finito la mia opera? Avrò dato il varo a un qualcosa di completo, oppure ho lasciato qualcosa di incompiuto? Per troppa sollecitudine l’ho sorretto per il tallone e l’ho reso, per un verso, non immune alle critiche? Così piccolo, perché nel suo pensiero è ancora piccolo, sarà in grado di affrontare il mondo da solo?
Ma oltre alla preoccupazione, quello che prova è un filo di rammarico:
dunque, non ha più bisogno di me? Dopo tutto quello che ho fatto per lui, adesso io per lui non sono più nessuno, se non una firma su un certificato? Figlio degenere.
Dove andrà, cosa farà, chi si prenderà cura di lui?
Lo capiranno o lo fraintenderanno?
E quel suo difetto o due, lo noteranno? O, magari, lo ameranno anche per questo?
Ai posteri l’ardua sentenza, diceva un tale.
Ai presenti, la dolce compiacenza, di veder camminare la propria creatura con le proprie gambe.
E il sollievo, di non doverla mantenere più.
PS: Ho finito il terzo libro per l'infanzia. Uscita prevista: settembre 2008. Aggiornamenti: a presto.
Yuppi.
Svuotato, e un po’ orfano.
Avrò finito la mia opera? Avrò dato il varo a un qualcosa di completo, oppure ho lasciato qualcosa di incompiuto? Per troppa sollecitudine l’ho sorretto per il tallone e l’ho reso, per un verso, non immune alle critiche? Così piccolo, perché nel suo pensiero è ancora piccolo, sarà in grado di affrontare il mondo da solo?
Ma oltre alla preoccupazione, quello che prova è un filo di rammarico:
dunque, non ha più bisogno di me? Dopo tutto quello che ho fatto per lui, adesso io per lui non sono più nessuno, se non una firma su un certificato? Figlio degenere.
Dove andrà, cosa farà, chi si prenderà cura di lui?
Lo capiranno o lo fraintenderanno?
E quel suo difetto o due, lo noteranno? O, magari, lo ameranno anche per questo?
Ai posteri l’ardua sentenza, diceva un tale.
Ai presenti, la dolce compiacenza, di veder camminare la propria creatura con le proprie gambe.
E il sollievo, di non doverla mantenere più.
PS: Ho finito il terzo libro per l'infanzia. Uscita prevista: settembre 2008. Aggiornamenti: a presto.
Yuppi.
Scusa ma ti chiamo allucinazione.
Di fronte ad uno scrittore di grande successo popolare ed enorme esposizione mediatica, la prima cosa che penso è “venduto”, la seconda “rxttx in culo”, la terza “chissà, magari scrive bene”.
In virtù di quest'ultima curiosità e probabilmente anche della voglia di carpire il segreto delle sue vendite, ho sempre detto fra me e me: “Forse prima o poi Moccia me lo leggo. Non dico che me lo compro, ma me lo faccio imprestare”. Così come ai tempi dicevo: “Ma sì, ci vado a vedere Vasco. Quando mi regalano il biglietto del concerto.”
Poi un mesetto fa ho intercettato in mezzo ad una pila scomposta di libri dell'edicola di un aeroporto “La passeggiata”, un libello scritto da Moccia per Moccia: il racconto dell'incontro immaginario tra lo scrittore e suo padre, che non c'è più.
Costava 4 euro, e l'ho comprato. E l'ho letto tutto d'un fiato in una sera. Laddove “tutto d'un fiato” non sta per “non riuscivo a staccarmi”, ma per “fammi togliere questo dente in uno strappo solo”.
Non è troppo brutto e neanche bello. È scritto in un modo asciutto, in cui vagamente mi riconosco.
Il tema – appunto, una onirica passeggiata di un figlio e del padre scomparso – è tutto fuorché creativo, ma ammetto che, puntando su un desiderio che appartiene un po' a tutti, quello di poter avere un ultimo colloquio con una persona cara che ci ha lasciato all'improvviso, le impressioni di scontatezza e di “già visto” sono in parte stemperate.
In parte, però. Perché alcune banalità, linguistiche ad esempio, sono del tutto inscusabili: vedasi, descrivendo il Tirreno disteso al sole sul litorale laziale, l'espressione “mare d'amare”. Sì e poi? Anche “sole, cuore, amore”, magari? Così mi pare d'essere a Sanremo, non ad Anzio.
Il dipanarsi della trama, poi, è talmente liscio da essere piatto. Non ci sono nodi in questo rapporto padre-figlio. Nessuna questione irrisolta, a parte la reciproca mancanza.
Ma che noia. Che favola melensa e irrealistica.
Qualunque figlio o figlia avesse l'occasione di rivedere un'ultima volta il proprio genitore passato a miglior vita, farebbe con lui o con lei una passeggiata costellata di mine vaganti. Ve lo dico io. E quel permesso premio dell'aldilà si trasformerebbe dopo pochi passi in una punizione del Creatore, questa è la verità.
Questo scrivevo qualche settimana fa, pochi giorni prima che uscisse “Scusa ma ti chiamo amore”, scritto e diretto da Moccia. Pochi giorni prima che la tv avesse un bel rigurgito mocciano. Ho visto qualche spezzone del film. Ho visto interviste a Moccia. E direi che tutto torna.
Non mi esprimerò sull'alternativa venduto-rxttinculo-buonoscrittore di cui sopra, anche perché, ripensandoci, forse le tre cose possono coabitare in una persona; dirò solo che l'abilità di Moccia secondo me è questa: lui dà alla gente e ai ragazzi in particolare ciò che chiedono. Come la De Filippi, come Muccino-ino, come i Tokyo Hotel.
Ora, il problema sta tutto lì. Che SECONDO ME bisognerebbe dar loro la cruda realtà, il disincanto, lo scetticismo: vale a dire, non ciò che chiedono, ma ciò di cui hanno bisogno.
In virtù di quest'ultima curiosità e probabilmente anche della voglia di carpire il segreto delle sue vendite, ho sempre detto fra me e me: “Forse prima o poi Moccia me lo leggo. Non dico che me lo compro, ma me lo faccio imprestare”. Così come ai tempi dicevo: “Ma sì, ci vado a vedere Vasco. Quando mi regalano il biglietto del concerto.”
Poi un mesetto fa ho intercettato in mezzo ad una pila scomposta di libri dell'edicola di un aeroporto “La passeggiata”, un libello scritto da Moccia per Moccia: il racconto dell'incontro immaginario tra lo scrittore e suo padre, che non c'è più.
Costava 4 euro, e l'ho comprato. E l'ho letto tutto d'un fiato in una sera. Laddove “tutto d'un fiato” non sta per “non riuscivo a staccarmi”, ma per “fammi togliere questo dente in uno strappo solo”.
Non è troppo brutto e neanche bello. È scritto in un modo asciutto, in cui vagamente mi riconosco.
Il tema – appunto, una onirica passeggiata di un figlio e del padre scomparso – è tutto fuorché creativo, ma ammetto che, puntando su un desiderio che appartiene un po' a tutti, quello di poter avere un ultimo colloquio con una persona cara che ci ha lasciato all'improvviso, le impressioni di scontatezza e di “già visto” sono in parte stemperate.
In parte, però. Perché alcune banalità, linguistiche ad esempio, sono del tutto inscusabili: vedasi, descrivendo il Tirreno disteso al sole sul litorale laziale, l'espressione “mare d'amare”. Sì e poi? Anche “sole, cuore, amore”, magari? Così mi pare d'essere a Sanremo, non ad Anzio.
Il dipanarsi della trama, poi, è talmente liscio da essere piatto. Non ci sono nodi in questo rapporto padre-figlio. Nessuna questione irrisolta, a parte la reciproca mancanza.
Ma che noia. Che favola melensa e irrealistica.
Qualunque figlio o figlia avesse l'occasione di rivedere un'ultima volta il proprio genitore passato a miglior vita, farebbe con lui o con lei una passeggiata costellata di mine vaganti. Ve lo dico io. E quel permesso premio dell'aldilà si trasformerebbe dopo pochi passi in una punizione del Creatore, questa è la verità.
Questo scrivevo qualche settimana fa, pochi giorni prima che uscisse “Scusa ma ti chiamo amore”, scritto e diretto da Moccia. Pochi giorni prima che la tv avesse un bel rigurgito mocciano. Ho visto qualche spezzone del film. Ho visto interviste a Moccia. E direi che tutto torna.
Non mi esprimerò sull'alternativa venduto-rxttinculo-buonoscrittore di cui sopra, anche perché, ripensandoci, forse le tre cose possono coabitare in una persona; dirò solo che l'abilità di Moccia secondo me è questa: lui dà alla gente e ai ragazzi in particolare ciò che chiedono. Come la De Filippi, come Muccino-ino, come i Tokyo Hotel.
Ora, il problema sta tutto lì. Che SECONDO ME bisognerebbe dar loro la cruda realtà, il disincanto, lo scetticismo: vale a dire, non ciò che chiedono, ma ciò di cui hanno bisogno.
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