Da casa mia.

















A casa mia
andiamo sempre tutti via.
Nessuno resta. Non so se sia
perché siamo emigranti dentro o checchessia,
ma di sicuro ho detto più buon viaggio, chiama quando arrivi, a presto
che bentrovato o benvenuto, in vita mia.
A casa mia si scappa,
si va lontano, si dice scendere e salire;
sarà perché non abbiamo mai saputo
qual è l'andare e qual'è tornare.
A casa mia non siamo gamberi,
siamo uccelli migratori.
Non siamo stelle, ma meteoriti.
Siamo distanti, sparpagliati,
siamo evasori.
Siamo rifugiati politici.
Che poi da dove scappiamo?
Da casa mia.
Che poi nessuno sa neanche dove sia.
Un po' la cerco,
la cerchiamo tutti,
mentre fuggiamo l'un dall'altro
e l'un con l'altro,
mentre abbracciamo i pupazzi,
mentre guardiamo le foto,
e ci manchiamo mentre stiamo assieme a terzi.
E io stanotte vorrei paralizzarci.

Offresi Scheggia.

Il 15 settembre partorirò il mio pargolo, Scheggia.
E lo abbandonerò sullo scaffale di una libreria.
Se desiderate adottarlo, vi consiglio di andare subito alla sua ricerca.
Segni di riconoscimento: il neonato è iperattivo, reca sulla fronte un gigantesco bernoccolo, e trovasi avvolto in una bella copertina:

Anch'io dico vaffanculo.

Amo la vitua.

Amo la vitua. Che sarebbe la mia vita da quando ci è entrata la mutua.
La vitua è meglio della vacanza. Molto meglio. Perché la vacanza è negativa, è pur sempre un lavoro. Sia che tu viaggi, sia che tu stia a casa, la vacanza è una sbatta. Richiede impegno, un sacco di impegno, per riuscire a far tutto in quel fottuto agognato weekend. O quei 14 striminziti giorni d'agosto.
Invece la vitua è diversa. È proprio una parentesi – rosa, tra le parole m'amo.
Da quando sono in vitua non ci sono, non esisto, nessuno mi calcola. Nessuno mi affibbia un lavoro, nessuno mi mette nell'elenco degli invitati. Non mi sveglio presto, non esco per l'aperitivo. Non devo cercare gli amici, guardo l'e-mail per poi richiuderla. Non vado in palestra, non salgo e scendo dai treni, non preparo e disfaccio valigie, non penso alla lista della spesa o a cosa mettermi o al giorno dopo, non so manco che giorno è.
Sono come morta, ma sono viva più di prima.
È la vitua: il tempo mi ha messo in aspettativa. Devo solo ricordarmi di prendere la medicina, e in cambio posso vedere la luce del sole, guardare dalla finestra per strada quelli che non fanno nulla come me, se esco per andare dal dottore posso buttar l'occhio su una vetrina.
È una pacchia esser malati. Malati non come i vecchietti che incontro al centro analisi o in radiologia; malati come me, cioè poco*. E quel poco che c'ho non si sa cos'è. Così non devo neppure stare a preoccuparmi.
Passerà anche quel poco, purtroppo, finiranno questi 10 insperati giorni di sospensione spazio-temporale, ma pazienza. Oggi è ancora tutto in stand-by. E tutti sono immobilizzati, in stop motion tipo Matrix. Io guardo soltanto, senza intervenire. E senza far niente. Dolce far niente che si fa soltanto in vitua.
Potessi essere sempre come Irene Grandi. In vacanza dalla vita. O almeno, in vacanza da una vita. Potesse la vita esser la vitua. Sarebbe tutto risolto. Ma alla mia vita manca una U, e le avanza il lavoro. E siccome chi non lavora non va in mutua, e, soprattutto, non fa all'amore, sono costretta a guarire. E a tornare al mio banchino, alle liste della spesa e agli aperitivi dei sani.
Che posso farci? Quando c'è la salute c'è tutto, dicono. Dicono.

*trattavasi di una bella infezione. Mica tanto poco...