Non dovrebbero esistere, ma esistono.
Si contano sulla punta delle dita, per fortuna, ma prima o poi vi capiterà di imbattervi in un esemplare, che scambierete dapprima per una perla rara, poi per una meno rara, ma vera merda.
Lasciate che vi prepari all’evenienza.
Vi parlerò di una speciale razza di donne. Una strana devianza nell’evoluzione del genere femminile, una stirpe di mutanti quanto immutevoli esseri: le donne tuttedunpezzo.
Io le odio. Ne conosco almeno due. E mi sembrano tantissime.
Sanno tutto loro. Tutto. E quando non lo sanno, comunque non poteva saperlo nessun altro.
Noi semplici umani viviamo gli anni dell’incertezza e del dubbio, del lavoro precario o inesistente, dei single e delle famiglie divise, o allargate, o sparpagliate. Loro, le donne tuttedunpezzo, no. Loro sono integerrime. Granitiche. Non conoscono dubbi o incertezze, ripensamenti o cambi di opinione, non dicono mai “credo che”. Ma sempre “sono sicura”. Non dicono mai “forse”, ma solo “è così”. La loro è l’ultima parola.
Le donne tuttedunpezzo sono un anacronismo vivente. Un baluardo di cocciutaggine contro le scosse sismiche costanti che insidiano la società del 2007. In sintesi, il loro credo:
- Tutti attorno a me sbagliano. Io sono nel giusto.
- Le mie idee, i miei pareri, le mie posizioni sono quelle corrette. Gli altri non capiscono niente.
Per noi – gli altri – un’unica possibilità di salvezza: fare esattamente quello che fanno loro. Peccato che in questo modo commetteremmo un altro errore: imitarle. Le donne tuttedunpezzo direbbero, infatti, che le abbiamo copiate. E si sa che loro sono inimitabili. Uniche ed inarrivabili. Sono le valchirie del XX secolo.
Come riconoscerle? Dall’incidenza della parola “io” nelle loro frasi, nettamente sopra la media. Dall’inclinazione dello sguardo: 45°, dall’alto in basso. Dalla sensazione di disagio che pervade ogni conversazione con loro. Conversazioni di tutti i tipi: il minestrone? Si fa così, come lo faccio io. La casa? Si arreda come l’ho arredata io. I vestiti? Io ho buon gusto, voi ci provate soltanto. E non c’è verso di patteggiare con un democratico “i gusti son gusti”, “ognuno ha le sue opinioni” ecc. ecc. C’è solo “io, io, io e ancora io”. Fino alla fine del discorso, fino a che tu, povero spettatore del loro show, non sei costretto a capitolare. Accettando di essere, irrimediabilmente ed inevitabilmente, un individuo di seconda classe.
Come ci godo però. Quando vedo la scintilla della miseria umana nei loro occhi. Perché c’è un momento in cui la vedo. In cui scorgo nel loro sguardo un’ammissione di colpa: “Azz. C’hai ragione tu. Me la sto tirando come se ce l’avessi d'oro, ma è tutta una scena.” E quel momento è pura libidine.
Vi do un consiglio, allora, se permettete. Prendetele in castagna, le donne tuttedunpezzo, mettetele all’angolo, senza paura. Insistete, che quella data cosa non vi risulta, che non è vero, che il minestrone non “si fa così”, ma cosà; sbattete loro sul muso le enciclopedie e i libri, mettetele davanti al fatto compiuto. Non confesseranno mai di essere in torto, ma sul loro volto avverrà una lieve mutazione: un sopracciglio alzato, convulsamente; un lieve tic all’angolo della bocca; una linguetta che spunta, a bagnare le labbra bugiarde e inaridite. Si riveleranno per quello che sono: attrici. Perché loro sanno di essere delle coglione. E passano la vita a mascherarlo.
Smascheriamole. Smascheriamole tutte. Non otterremmo niente, forse, ma ci prenderemmo una rivalsa. Una vendetta piccola piccola, che non toglie la frustrazione, ma concede un po’ di respiro. Un buco in più nella stretta cintura della sicurezza di sé. Prendiamoci noi – per un momento, un solo momento, quanto dura uno sguardo - il diritto di fare le inquistrici delle donne tuttedunpezzo. Prendiamocelo noi, donne inmillepezzi.
Pensieri, parole, opere e omissioni di una scrittrice in erba,
una copywriter freelance in tempo di crisi, una spiantata trapiantata a Lecco.
Appello
“Signori della corte, signori giurati.
Son io a prender la parola.
E a farne supplica: voglio esser condannata!
Non a una pena. A una tortura.
L’invento io, sola,
io sola so
quale sarebbe la più dura.
Vi pare sia una scusa? Forse.
A me pare una preghiera:
tenetemi un’ora intera
ad ascoltare mia madre.
Mostratemi il broncio di mia sorella,
e le ciglia aggrottate di mio padre.
Lasciate che mi innervosiscano le amiche,
e che io pianga nel mio letto,
dove qualcuno almeno può sentirmi,
e sapermi diversa.
Toglietemi la penna per sfogarsi
e infine
toglietemi anche la parola,
perché là fuori, coi miei carcerieri,
non avrò più
bisogno di parlare."
Son io a prender la parola.
E a farne supplica: voglio esser condannata!
Non a una pena. A una tortura.
L’invento io, sola,
io sola so
quale sarebbe la più dura.
Vi pare sia una scusa? Forse.
A me pare una preghiera:
tenetemi un’ora intera
ad ascoltare mia madre.
Mostratemi il broncio di mia sorella,
e le ciglia aggrottate di mio padre.
Lasciate che mi innervosiscano le amiche,
e che io pianga nel mio letto,
dove qualcuno almeno può sentirmi,
e sapermi diversa.
Toglietemi la penna per sfogarsi
e infine
toglietemi anche la parola,
perché là fuori, coi miei carcerieri,
non avrò più
bisogno di parlare."
Iscriviti a:
Post (Atom)