La cronaca oggi ha riportato un caso di sfruttamento di bambini per accattonaggio: fermati tre zingari.
Cosa c'è di nuovo? Niente, a parte il fatto che ne parlino.
Un motivo in più per me, stasera, per andare a vedere il documentario Adisa o La storia dei mille anni, che racconta il popolo Rom della Bosnia Erzegovina.
Mi sono chiesta "ma cosa cavolo ne sai te davvero dei Rom?" E la risposta è stata "niente". Non che questo film mi abbia aiutato, visto che l'80% dei dialoghi non è sottotitolato. Ma forse è stata una scelta voluta del regista. Come per dire allo spettatore: "Visto quanto ne capisci tu di Rom?" Proprio niente.
Pensieri, parole, opere e omissioni di una scrittrice in erba,
una copywriter freelance in tempo di crisi, una spiantata trapiantata a Lecco.
14 luglio '06,
Caparezza a Torino
Divertente e irriverente, proprio come me l'aspettavo. Viva Traffic e viva la musica gratuita per tutti.
7 luglio '06, Vinicio Capossela a Cave di Paderno (Mi)
Presenza scenica, location suggestiva. Uno show che mi avrebbe fatto innamorare di Vinicio, anche se non l'avessi conosciuto.
Ode agli apripista.
Gli apripista sono una specie particolare, spesso bistrattata. Ce ne sono, trasversalmente, in ogni campo: canzoni apripista, film apripista, spot, libri, quadri. Persone e personaggi. Inaugurano delle mode, o ci informano di un nuovo stile. Puntano i riflettori sulle nicchie, per attirare sull’underground gli sciami del grande pubblico.
Alcuni apripista sono davvero antipatici. Sono quelli che, per rendere digeribile alle platee il loro carico di novità, si lasciano annacquare dalla cultura popolare, si prestano ad operazioni commerciali, smorzano i loro toni quasi a divenire macchiette. E il bello è che a volte non inventano proprio niente; piuttosto coagulano in sé tendenze e temi già esistenti, portandoli all’attenzione di tutti.
Beh, vorrei spendere qualche parola a loro discolpa. Non so. Il Codice Da Vinci: ha fatto un gran minestrone di misteri storici, teorie apocrife, di tesi eretiche e di vere e proprie balle di fantasia. Tra gli ingredienti, anche dei dubbi legittimi, la rivalutazione di figure realmente esistite, la messa in discussione dei dogmi. Insomma, concetti e idee che senza Dan Brown non sarebbero giunti alle orecchie dei più. E che da questi più possono ora essere studiati attraverso altri strumenti, altre fonti. Chissà, una riflessione più approfondita potrebbe condurre altrove, più lontano, magari a rinnegare tutto, anche il punto di partenza. Ma senza l’apripista chi ci sarebbe arrivato? A parlare della Maddalena, dell’Opus Dei e dei Catari? Non milioni di persone in tutto il mondo.
Un altro esempio? Jovanotti, all’epoca, per il rap in Italia. Non seguiva i dettami stilistici d’oltreoceano, non si portava dietro la cultura hip hop, non ha mai realmente tenuto alla diffusione del genere. (E tra l’altro, non mi piace per niente. Dovevo dirlo.) Eppure, chi mai avrebbe parlato nel ’90, in Italia, di rap se non avesse fatto lui da apripista?
Altro esempio? I breakers a Sanremo. Apripista che si espongono anche per chi resta in ombra, si beccano i pomodori marci per essersi commercializzati (è così che si usa classificare chi fa il salto al pop nelle controculture), ma spianano la strada a chi ha da venire, fanno conoscere anche alla pensionata valdostana qualcosa che sarebbe rimasto, altrimenti, irrimediabilmente nel sottosuolo.
Niente contro le pensionate valdostane. Ma fummo fatti per seguir virtute e canoscenza. Sia lodato chiunque ci indichi un nuovo sentiero.
Alcuni apripista sono davvero antipatici. Sono quelli che, per rendere digeribile alle platee il loro carico di novità, si lasciano annacquare dalla cultura popolare, si prestano ad operazioni commerciali, smorzano i loro toni quasi a divenire macchiette. E il bello è che a volte non inventano proprio niente; piuttosto coagulano in sé tendenze e temi già esistenti, portandoli all’attenzione di tutti.
Beh, vorrei spendere qualche parola a loro discolpa. Non so. Il Codice Da Vinci: ha fatto un gran minestrone di misteri storici, teorie apocrife, di tesi eretiche e di vere e proprie balle di fantasia. Tra gli ingredienti, anche dei dubbi legittimi, la rivalutazione di figure realmente esistite, la messa in discussione dei dogmi. Insomma, concetti e idee che senza Dan Brown non sarebbero giunti alle orecchie dei più. E che da questi più possono ora essere studiati attraverso altri strumenti, altre fonti. Chissà, una riflessione più approfondita potrebbe condurre altrove, più lontano, magari a rinnegare tutto, anche il punto di partenza. Ma senza l’apripista chi ci sarebbe arrivato? A parlare della Maddalena, dell’Opus Dei e dei Catari? Non milioni di persone in tutto il mondo.
Un altro esempio? Jovanotti, all’epoca, per il rap in Italia. Non seguiva i dettami stilistici d’oltreoceano, non si portava dietro la cultura hip hop, non ha mai realmente tenuto alla diffusione del genere. (E tra l’altro, non mi piace per niente. Dovevo dirlo.) Eppure, chi mai avrebbe parlato nel ’90, in Italia, di rap se non avesse fatto lui da apripista?
Altro esempio? I breakers a Sanremo. Apripista che si espongono anche per chi resta in ombra, si beccano i pomodori marci per essersi commercializzati (è così che si usa classificare chi fa il salto al pop nelle controculture), ma spianano la strada a chi ha da venire, fanno conoscere anche alla pensionata valdostana qualcosa che sarebbe rimasto, altrimenti, irrimediabilmente nel sottosuolo.
Niente contro le pensionate valdostane. Ma fummo fatti per seguir virtute e canoscenza. Sia lodato chiunque ci indichi un nuovo sentiero.
Navigando per il mare della scrittura, mi sono imbattuta negli haiku. E finalmente ho deciso di saperne di più.
Gli haiku sono dei componimenti poetici della tradizione giapponese, di origine antichissima. Hanno una struttura fissa: tre versi rispettivamente di cinque, sette e di nuovo cinque sillabe. Insomma, 17 sillabe in tutto, nelle quali l'haijin (il poeta) racchiude la descrizione di un attimo. Come direbbero i Tiromancino.
Gli haiku nascono come frutti di stagione, legati, almeno con una parola, ad un periodo dell'anno. Ma innumerevoli sono oggi le variazioni sul tema, sia nello stile che negli argomenti, tanto che questo vincolo temporale (il riferimento stagionale è detto kigo), anche in Giappone, non è più vincolante come una volta.
Ho deciso di dilettarmi un po' con gli haiku. Mi sembrano un'ottima palestra di sintesi. Uno strumento potentissimo per suscitare una sola, devastante emozione. Un gioco magnifico con la polisemia delle parole.
Ne ho scritto uno, eccolo. Forse non merita il nome di haiku. In ogni caso non merita un titolo. Gli haiku non lo hanno e giustamente. Sarebbe come dare un nome ad un quadro astratto. Un recinto alla libera interpretazione.
Gli haiku sono dei componimenti poetici della tradizione giapponese, di origine antichissima. Hanno una struttura fissa: tre versi rispettivamente di cinque, sette e di nuovo cinque sillabe. Insomma, 17 sillabe in tutto, nelle quali l'haijin (il poeta) racchiude la descrizione di un attimo. Come direbbero i Tiromancino.
Gli haiku nascono come frutti di stagione, legati, almeno con una parola, ad un periodo dell'anno. Ma innumerevoli sono oggi le variazioni sul tema, sia nello stile che negli argomenti, tanto che questo vincolo temporale (il riferimento stagionale è detto kigo), anche in Giappone, non è più vincolante come una volta.
Ho deciso di dilettarmi un po' con gli haiku. Mi sembrano un'ottima palestra di sintesi. Uno strumento potentissimo per suscitare una sola, devastante emozione. Un gioco magnifico con la polisemia delle parole.
Ne ho scritto uno, eccolo. Forse non merita il nome di haiku. In ogni caso non merita un titolo. Gli haiku non lo hanno e giustamente. Sarebbe come dare un nome ad un quadro astratto. Un recinto alla libera interpretazione.
Dentro la rete
s’intrica e si districa
l’alma di Dena.
Iscriviti a:
Post (Atom)