Si chiama Volver perché torna.









In Volver torna tutto. Tornano i destini dei genitori, che ricadono inesorabili sui figli e sui nipoti. Tornano i morti, a saldare i debiti pendenti; e tornano i vivi, risalendo controcorrente i fiumi che li hanno portati via dai paesi natii. Tornano i volti del passato, quelli di chi solo può sapere e può capire. Perché c'era. Tornano le colpe mai espiate e le eredità mai riscosse. E soprattutto torna una sceneggiatura che non lascia nulla al caso, che fa vivere, in un microcosmo autarchico, un piccolo mondo fatto di omertà, pettegolezzo e incommensurabili segreti. Di baci, abbracci e vendette. Di amore filiale e di incesto. Di "tutto è sulla bocca di tutti", ma "tutto resta in famiglia".
Insomma, Almodovar ha fatto Volver tutto. Troppo?

L'ultima poesia: Giovanni a Salomé.

Personal mente.

A tratti, purtroppo, ti considero il mio specchio.
E, non vedendomi dentro te, non esisto.

Facciamo luce sui cessi.


Ho sempre provato una certa avversione per le fotocellule dei bagni pubblici. Per intenderci, i sensori della luce che ci sono nelle toilette dei bar, o degli uffici, o delle scuole. Lì quasi mai trovi l’interruttore della corrente, come a casa. Lì quando ti scappa ed entri di filato in gabinetto ti senti come al Grande Fratello.

Insomma, io quegli aggeggi non li sopporto. Mi disturbano per il solo fatto che rilevano la mia sagoma appena entro in bagno. E perché m’hanno visto? E cosa vorrà dire? Ecco che spunta la paranoia da grassofoba. Purtroppo è così. Mi stanno simpatici solo ed esclusivamente quelli che, al mio ingresso nella toilette, non si accorgono della mia presenza. Resta tutto buio, almeno finché non mi sbraccio come una naufraga al passaggio di una petroliera. Allora sì, i rapporti tra noi si mettono bene. E posso rivolgere a quell’occhio cieco, ma indiscreto, uno sguardo benevolo.

Se poi la luce si spegne nel bel mezzo del bisognino, sotto sotto godo immaginando che sia perché non sono tanto d’ingombro. Oddio, pensandoci bene, quando sono lì, in piedi e al buio, sospesa culo in fuori sul cesso più cesso che ci sia, magari un po’ m’innervosisco. In situazioni così cosa fai? Improvvisi un ballo di San Vito grondante d’urina per farti notare dalla fotocellula? Annaspi nell’oscurità cercando prima la carta igienica, poi la chiave della porta, dopo la maniglia e, non ultime, le tue mutande? Sempre in equilibrio precario come un fenicottero? Non sono dei bei momenti. Meglio il caro vecchio on/off. Che se si accende la luce sei sicura che è perché l’hai accesa tu, non perché hai preso qualche chilo.

N.d.A. L'autrice aderisce alla scelta ecologista di utilizzare interruttori a tempo o fotocellule per gli scopi suddetti. Ma questo che c'entra con le sue paranoie?

Un gruppo da tesi di laurea.















Sabato scorso sono andata al concerto dell'Asian Dub Foundation. Mammamia. Era tanto che non assistevo - che dico, partecipavo - a qualcosa di così coinvolgente, energetico, vivo.
L'Asian Dub Foundation, mi è venuto subito da dire, è un gruppo su cui fare una tesi di laurea. Sul multiculturalismo, sulla cosiddetta globalizzazione, sull'ibridazione e il meticciato del mondo presente. Perché nessun altro gruppo che io abbia mai ascoltato ha saputo unire in un amalgama così armonico tanti generi e tante culture: la musica indiana, il reggae, le melodie tradizionali dei loro padri, i componenti dell'Asian Dub li hanno fusi e rienterpretati con la jungle, il dub, l'hip hop, il punk. Nell'Asian Dub Foundation c'è tutta la musica di oggi e di ieri, forgiata in una nuova lega tutta loro, irripetibile. Non per niente la formazione ha dichiarato: "Siamo noi il vero Britpop." Magari.