Nuovo libro, nuovo sito, nuova bio.

Mi piace scrivere tout court. Racconti, spot pubblicitari, sceneggiature, comunicati stampa, ma anche liste della spesa, cartoline a premi, assegni e post-it.

In trentatre anni di degni di nota ci sono soprattutto tre libri per bambini, editi dalla casa editrice Campanila: Storie della Natura, Scheggia e Di tutti i colori. E tutta una serie di storie truci per adulti, su cui spero di aggiornarvi presto.

Del resto, dalla carriera pubblicitaria si impara presto che scrivere è il contrario del maiale. È più quel che si butta via, di quel che viene salvato (per continuare il paragone, poi con lo scrivere è difficile mangiarci).

Ma ho anche imparato che non bisogna esser gelosi di quel che si scrive, e condividerlo, esponendolo al giudizio, alla revisione, allo smembramento.

Per questo oggi pubblico Diademona, che è un po' un divertissement semisperimentale politicamente scorretto sulle orme di Dante, dedicato a ragazzini e adulti con fanciullino incorporato. Prezzo politico, autoproduzione, formato digitale. Se dopo averlo letto anche voi volete scrivere (commenti, complimenti o insulti) potete contattarmi qui: dena@almadena.it

Per maggiori informazioni, vi invito a leggere, invece: www.almadena.it

I segreti della nonna. E i segreti del nonno.

Mi hanno lasciato molto, i miei nonni materni.
Soprattutto, segreti.
La prima eredità che ho ricevuto è stata l'incertezza sul nome di mia madre.
Quando ero piccola, sentivo tutti chiamare mia mamma Annamaria, tuttattaccato. E festeggiare il suo onomastico – siamo terroni, nella mia famiglia si usa così - il 26 luglio, Sant'Anna. Per mio papà e mio nonno invece lei era solo Maria. E mio nonno arrivava regolarmente al 12 settembre con un fiore, una sporta di dolcetti, o un regalino. Io non mi sono mai posta il problema. Mi era stato spiegato che il nonno preferiva quel nome perché anche sua madre si chiamava così, e che era stata mia nonna ad insistere per dare la precedenza al nome Anna, perché è la protettrice delle partorienti.

Mia nonna Olimpia ha avuto una gestazione difficile. Era già piuttosto avanti con l'età per i tempi, per affrontare una gravidanza. E non era Gianna Nannini, ma un donnone pesante con molti chili di troppo addosso, oltre al pancione. Aveva fatto un voto a Sant'Anna, cui era dedicato l'ospedale di Napoli in cui era ricoverata, che se fosse andato tutto per il verso giusto le avrebbe intitolato il suo dono più grande: sua figlia.
Così era stato, e a tutti i costi lei aveva preteso che si rispettasse il suo voto, che mia madre si chiamasse come primo appellativo Anna. Aveva vinto le insistenze di mio nonno, che si era accontentato del secondo posto, o almeno questo era quello che si pensava.
La verità i miei l'hanno scoperta quando si sono sposati, e anche a me è stata raccontata una volta raggiunta l'età per capire. Ma veramente capito mio nonno non l'ho mai, e proprio non l'ho ancora.
Al momento di espletare le pratiche per il matrimonio, nel 1978, i miei genitori si sono ritrovati davanti i certificati di nascita e di battesimo, e i documenti della comunione e della cresima, che discordavano completamente. Carte che dicevano Annamaria, altre che spacciavano mia madre per Maria Anna, altre ancora solo Anna o solo Maria, e tutte le diverse coniugazioni, con o senza spazi.
Mia madre, che per fortuna non ha mai sofferto di crisi d'identità, aveva un problema più concreto: che non la lasciavano sposarsi, e questo dopo sei lunghissimi anni di fidanzamento, tanti quanti ne aveva dovuti aspettare per ottenere dallo Stato di potersi unire civilmente con mio padre, che era militare nell'Aeronautica e per le regole di allora doveva raggiungere i 25 anni per contrarre matrimonio.
Sei anni di “io mammete e tu”, di visite domenicali, di rare uscite scortate, di sorveglianza rigida da parte mio nonno, che oltre ad essere terrone era pure poliziotto, e possedeva una rete di informatori in tutto il paese.
Insomma, i miei genitori rosicarono non poco quando scoprirono che il cavillo del nome impediva loro di convolare a nozze. E del resto lo Stato voleva sapere se mio padre si sposava con Anna o con Maria.
Ma perché, ma per come, indaga di qua e di là, nessuno riusciva a scoprire dove era nato l'inghippo. Poi non so esattamente come andò, ma un lungo pressing spinse mio nonno a confessare, che in realtà, sì, gli era stato detto di registrare sua figlia prima come Anna, e poi come Maria, ma che, una volta in Comune, davanti all'ufficiale, aveva deciso che se fosse stato viceversa nessuno se ne sarebbe accorto.
In seguito, vuoi per i suoi goffi tentativi di insabbiare la faccenda, vuoi per incuria burocratica, anche all'atto del battesimo, della comunione, e di tutti gli altri sacramenti, la confusione era aumentata ulteriormente, a dismisura.
I miei sono riusciti a sposarsi, infine. Mia mamma si è rifatta il codice fiscale, la carta d'identità e quant'altro, ha abbandonato Sant'Anna, ed è rimasta sempre Maria. Per tutta risposta né io né mia sorella abbiamo un secondo nome; i miei genitori si sono imposti questo veto, che varrà per quanto mi riguarda anche nei secoli a venire su nipoti e pronipoti.
Ciò che mi ha sconvolto, e che continua a tormentarmi ancora, non è la storiella in sé. È l'idea che mio nonno abbia potuto per 22 anni fingere che sua figlia si chiamasse in un altro modo, che per 22 onomastici abbia festeggiato in cuor suo un altro nome; gioito da solo, forse, di questa sua piccola marachella, ma gioito nell'inganno. Non gli importava come la chiamassero gli altri, quale fosse il nome che la figlia scarabocchiava da piccola, imparando a scrivere, o cosa fosse riportato sul libretto delle giustificazioni, non gli interessava il benché minimo di aver turlupinato sua moglie, gli bastava saperlo lui; e tutti gli anni, al 12 settembre, mangiarsi una babà alla facciazza di tutti.
Non so se ci fosse quest'elemento di sfottò in lui. Probabilmente no, alla luce degli ulteriori avvenimenti che sono stati scoperti. Probabilmente non è che si esaltava all'idea di averla fatta franca su tutti gli altri. Era così, e basta. Rientrava tra le cose da non dire. E non era nemmeno l'unica, nemmeno tra la più grossa, tra le cose da non dire.

Mio nonno aveva un tatuaggio sul braccio, se non ricordo male quello destro. Ne ho sempre visto solo la metà inferiore, e sempre di sfuggita. Raffigurava la Madonna, e io me lo ricordo bluastro, molto andato, la fattura del tipico tattoo del galeotto.
In piena estate la camicia di mio nonno copriva tutto il braccio, almeno fino al gomito; spesso era a maniche lunghe, rigirata con ampi risvolti. Anche sulla spiaggia, a mezzogiorno di ferragosto, il nonno era coperto fino al midollo.
Lo faceva per nascondere l'immagine di Maria; così come aveva nascosto per tanto tempo il nome, di Maria.
Mia mamma dice che si vergognava di quel marchio, magari per una questione di onorabilità, che lui in fondo era un poliziotto. E anche di mentalità: i tribali e gli ideogrammi di oggi mio nonno non li capiva. Il tatuaggio non era una moda, era una cosa da delinquenti.
Sapevo poco di quel tatuaggio. Solo che era stato fatto durante una lunga traversata in nave, alla fine della guerra. Nonno Salvatore era stato catturato in Africa, e gli inglesi lo avevano portato prima in un campo in India, e da lì, dopo lunghe settimane di navigazione, a Londra. Dove, a quanto diceva, lo avevano messo a lavorare alla ricostruzione della stazione Victoria.
Quel tatuaggio era un voto. Si vede che nella mia famiglia usava. Lui aveva fatto voto alla Madonna, perché non sapeva dove sarebbe finito, e temeva che sarebbe rimasto per sempre lontano da casa. Scriveva sulla sua pelle, per aver salva la pelle, perché il viaggio era lungo e molto faticoso.
Non si sapeva nient'altro di quel periodo.
Solo che mia nonna diceva che mio nonno non tornava più, dalla guerra. Che tutti erano rientrati, e lui no, e lo avevano quasi dato per morto.
Infatti le cose tornavano. La guerra è finita nel '45, mia mamma è nata nel '56, perché altrimenti tanta attesa?

Mia madre è figlia unica. Nata che mia nonna era già agè, dopo tante complicazioni, alla prole non era stato dato un seguito. Ci avevano riprovato i nonni, ma un po' perché erano già in là con l'età, e un po' perché il primo parto era stato così difficile, al secondo tentativo la nonna aveva subito un aborto spontaneo. Così sapevamo.
Mia mamma non ha fratelli o sorelle dunque, ma una volta aveva tanti cugini, perché entrambi i suoi genitori facevano parte, secondo la bella usanza di un tempo, di famiglie numerose. Poi ci si sono messi la distanza – i parenti erano a Napoli, mia mamma era in provincia di Pisa, praticamente dalla nascita, da quando mio nonno era stato trasferito al comando di Pontedera – e oltre alla distanza le faide familiari. Le sorelle di mia nonna questionavano tra loro e dovevi prendere le parti, e quella si offendeva, e quell'altra non ti parlava più, era un delirio, anche a 500 e passa chilometri di distanza. Mio nonno, idem, non abbiamo mai capito esattamente quanti fratelli avesse. Qualche anno fa mia madre ha scoperto che le era morta una zia paterna, di cui non aveva mai saputo l'esistenza. Perché mio nonno ci aveva litigato. Sembra inventato, ma è vero, lo giuro.
Insomma, negli anni i rapporti tra mia madre e i suoi cugini si sono non volendo sgretolati; e solo alla morte di quella generazione fratricida, nell'ultimo decennio, mia madre è riuscita a recuperare i legami con una sua cugina, la più moderata, e con i suoi figli, i cui tratti caratteriali fortunatamente non sono stati inficiati troppo dal dna.
Sua cugina è più anziana di lei, una vera napoletana, che mia madre non può davvero dirsi tale; simpatica, con la parlantina veloce e squillante, e la risata da chioccia. Quando si vedono, la conversazione ruota tutta attorno ai figli e ai nipoti. Tema: i successi e i guai, più i secondi che i primi, di ogni trenta/quarantenne d'Italia. Raramente parlano del passato; soprattutto mia madre, verosimilmente per come è cresciuta, e per le cose di cui sopra, non guarda mai indietro, non rimugina, non si fa troppe domande.

Io – ora - non so invece come sia andata la chiacchierata di quel determinato giorno. Come siano finite a parlare della nonna Olimpia, e della creatura che ha avuto prima della nascita di mia mamma. Sì, non dopo. Ma prima.
Posso solo immaginare il colpo che deve esser preso a mia madre. E se non l'ha avuto, è appunto perché troppe domande non sa farsele, o meglio ha imparato a non farsele, per vivere meglio.

Mia mamma sapeva che mio nonno era tornato molto tardi dalla guerra, e lui e la moglie si erano sposati nel '55, e lei era nata l'anno dopo, figlia tanto desiderata. Sapeva che avevano tentato di darle un fratellino, ma la nonna aveva abortito. Ecco, in verità aveva perso un bambino prima della sua nascita. E prima dunque anche del matrimonio.
Gliel'ha detto la cugina Carmelina, pescando tra i suoi ricordi di bambina: Olimpia, la sorella minore di sua madre, in quel periodo stava sempre chiusa in casa, e non si faceva vedere mai. Carmelina, che era piccola allora, intravedeva appena la figura di quella ragazza, entrare e uscire dalla camera; pensava che fosse grassa, e invece era anche incinta. Infatti un bel giorno Olimpia lasciò, per un po', quella casa; alla nipotina dissero che era andata all'ospedale, a partorire, ma poi tornò senza bambino. Secondo la sua testimonianza, la gravidanza era giunta al nono mese, ma non era arrivata a buon fine a causa di una nefrite.

La scoperta di questa zia mai nata – perché in realtà di una bambina parlava, la cugina Carmelina - si è adagiata nel mio subconscio, come cade una piuma. Il turbamento è stato tutto mio, e di mia sorella, più che di mia madre.

Naturale che dei dubbi siano sorti. Ha perso davvero la bambina, o l'ha voluta perdere? Siamo a San Pietro a Patierno, provincia di Napoli, negli anni '50, e lei non è sposata. È vero che prima del '78, in Italia, l'interruzione volontaria di gravidanza era un reato, ma c'erano tanti sistemi. L'altra mia nonna, nonna Ida, me li raccontava a volte, con un certo sottile gusto del macabro in cui mi decisamente mi riconosco. Se si desiderava interrompere una gravidanza, allora, a Napoli, i metodi più usati erano: infilzarsi con l'ago dell'uncinetto; o farsi lavande con l'aceto. Insomma, anche senza RU 486, il modo si trovava. Chissà che anche nonna Olimpia, invece di andare all'ospedale non sia andata da qualche medico da strapazzo o da qualche stregona. Carmelina disse che era stata in una certa clinica San Ciro, vicino alla Salita dei Pompieri, ma vai a sapere.

Che i nonni non fossero sposati per lo Stato prima del 1955 ce lo dice l'Ufficio Stato Civile del Comune di Napoli.
Grazie al marito di Carmelina che saputo della nostra curiosità si è interessato personalmente.
“Addì 22 gennaio dell'anno 1955 nella sezione di San Pietro a Patierno contrassero matrimonio civile Capasso Salvatore, di anni trentanove, e Serino Olimpia, di anni trentasei.”

Ecco ma perché sposarsi così tardi?
Cosa è successo? Cosa è vero, cosa non lo è?
E mio nonno, quando è tornato dalla guerra?
Dove diamine è stato dal '45 al '55?

Senza contare un altro problema, ben più grosso, e più irrisolvibile: come hanno fatto i miei nonni a nascondere tutto questo a mia madre, per tutta la vita e oltre? Con che cuore se lo sono portati nella tomba, questo segreto? Dico, magari ti vergogni, non vuoi dare il cattivo esempio, tutto quel che vuoi, ma quando tua figlia ha 20, 30, 40 anni, non gli vuoi aprire il tuo animo e liberarti di quella pietra, o di una delle pietre, sotto cui l'hai sepolto?
Evidentemente no. E questo la dice lunga sul dialogo che intercorreva tra mia madre e i suoi.

Ad ogni modo, quest'ultima questione resterà sempre senza risposta. Si può tentare di stabilire la storia, ma le motivazioni rimarranno secretate per l'eternità.
Indaghiamo su internet, io e mia sorella. Ci deve essere un database dei prigionieri di guerra. Vogliamo sapere fino a quando risulta che mio nonno sia stato a Londra, prigioniero degli inglesi.
Scopriamo che la Croce Rossa Internazionale ha in mano un registro dei POW camps, dove POW sta per prisoners of war.
I parenti di familiari deceduti hanno diritto di fare richiesta della scheda dei POW, e di ricevere risposta entro un anno.
E la risposta dopo un anno è arrivata.

Salvatore era tra i 35.000 soldati della battaglia di Tobruk. Giugno 1941. I documenti della Croce Rossa confermano i racconti che ci sono stati fatti. Il vedere le date però, scritte nere su bianco, e la scheda di mio nonno con la sua firma, è tutta un'altra cosa, al confronto con quei sedimenti di ricordo, con il tempo che trasforma gli avvenimenti in favolette.
Mio nonno, dopo Tobruk, che già non deve essere stata una passeggiata, è rimasto un intero anno in un campo in Egitto; dal '41 al '44, tre anni, in vari luoghi di detenzione in India; e ancora un anno in Inghilterra: prima a Londra, poi sotto Liverpool, poi di nuovo a Londra, gli ultimi mesi. Dal 1941 al 1945 gli inglesi, il destino, o la sfortuna, gli hanno portato via più di quattro anni della sua vita.
Non so come fossero le condizioni detentive. Presumo buone; ho letto qualcosina, ancora poco, su dei campi per ufficiali in India, precisamente a Yol, sotto l'Himalaya; i ragazzi non se la cavavano male, riuscivano ad organizzarsi e addirittura a distillarsi la grappa con ordigni artigianali. Ma mio nonno non era un ufficiale e non era a Yol, e forse se si è tatuato quel Madonnone da ergastolano, proprio preso bene non era. Mi leggerò quel che si riesce a recuperare. Non lo so, mio nonno non ha certo manifestato interesse affinché condividessimo quest'esperienza con lui. Però credo di doverlo fare, lo stesso o proprio per questo. E poi ci sono ancora elementi che non sono del tutto chiari. C'è una voragine di una decina d'anni, tutta da colmare.
Le scartoffie della Croce Rossa datano l'ultima informazione ufficiale su Salvatore Capasso a marzo del 1945. Dopo quella data, finisce la custodia delle forze armate inglesi.
Salvatore ha 27 anni, e una fidanzata a Napoli, che lo aspetta almeno da 5. Una relazione a distanza oggi improponibile, nemmeno con il supporto delle migliori tecnologie di web-conference.

L'arrivo del plico su mio nonno ha comunque scosso qualcosina in mia madre, che di notte si è ritrovata a scartabellare tra le vecchie fotografie, in cerca di date.

Ci sono delle cartoline che mio nonno mandava da Massa, dove era stato mandato di stanza prima del trasferimento a Pontedera, datate 1950, ed indirizzate “alla sua sposa”. Dicono proprio così. Eppure in quell'anno dovevano essere solo fidanzati.

E poi c'è una foto, tra le logore pagine di un album, in cartoncino verde petrolio. È l'unica foto che ritrae nonna Olimpia e nonno Salvatore con i loro testimoni di nozze. Sono davanti al Santuario di Pompei. Hanno tutti sul viso un'espressione abbastanza trionfante. Mia nonna soprattutto, ha quell'aria un po' impudente, un po' “a me non mi freghi”, da Filumena Marturano, la stessa che ha oggi anche qualche peruviana d'importazione; la faccia della femmena che ce l'ha fatta, o vuole farti credere che ce l'ha fatta.
Al di là di tutto, la nonna non indossa l'abito bianco. E, ci siamo accorti, non esiste una sola foto della nonna col vestito bianco da sposa. Non ci avevamo MAI fatto caso.

Quella deve essere la foto del loro matrimonio. Tutto ci fa pensare che quel giorno è avvenuto il rito religioso, che mia nonna non si è sposata in bianco perché non era vergine; e che l'ha fatto a Pompei, senza un parente, alla sola presenza dei testimoni, per stare fuori zona, e forse per l'idea di espiare qualcosa, vista la presenza del noto santuario.
La foto non è datata purtroppo, ma è probabile che risalga a prima del 1950, prima che mio nonno definisse Olimpia “la sua sposa”. Insomma, si sono sposati solo in Chiesa prima del '50, e poi civilmente nel '55. Quella cerimonia sottotono è stata organizzata a fattaccio già successo, o in procinto di succedere? La sorellina di mia madre quando è nata? E il fatto che a Pompei ci sia un famoso ricovero delle suore per i bimbi indesiderati c'entra qualcosa? Dio solo lo sa. E anche la Madonna, che in questa storia ricorre sempre più spesso.

La cugina di mia madre ha poi aggiunto anche altri tasselli al puzzle. Pare che al ritorno a casa, che deve essere avvenuto via mare, perché mio nonno diceva di aver passato lo stretto di Gibilterra, egli abbia dapprima tentato di rimettere in sesto il negozio di calzature di suo padre, Gennaro. Ma con la guerra appena finita, la nuttata appena passata, non c'erano molte possibilità di far business con un negozio di scarpe a Napoli. Così si è arruolato, inizialmente nella Guardia Regia. Questo significa che è stato reclutato prima del referendum repubblica-monarchia, a giugno 1946. E dunque è una boiata che il nonno non tornava più dalla guerra, se da marzo '45, quando è stato rilasciato, a giugno '46 (referendum) ha fatto in tempo a tentare la carriera dello scarparo e quella del militare monarchico; al massimo avrà tardato sei mesi a tornare, ma ad ogni modo la storiella del prigioniero di guerra perso per le strade d'Europa sembra solo una scusa per coprire il buco spazio-temporale delle loro vicende, agli occhi di mia madre e dei posteri.
Ci avete fregato per 60 anni, nonni, mo' basta.

Niente, poi a consultazione referendaria avvenuta, Salvatore è entrato in polizia. Prima fu trasferito a Massa, poi a Pontedera. Supponiamo che avesse dei limiti di legge anche lui, per sposarsi secondo il rito civile, magari dieci anni dall'entrata in servizio, dal '45 al '55, questo spiegherebbe perché ha aspettato di averne compiuto 39 per sposarsi in Comune. Ma non per impratichirsi con le gioie della vita coniugale, e questo spiega la “figlia del peccato”.

Di più non è dato sapere.
Di tutto questo non rimane che un grande viluppo di bugie, sotterfugi, discorsi tronchi, “è così e basta” che solo in parte siamo riusciti a dipanare.
E se da qualche a Napoli ci fosse una donna, sui 60 anni, una Filumena tutta sola, che avrebbe tanto voluto delle nipoti, e una sorella, come la mia?
Difficile crederlo. Sebbene i miei nonni abbiano toccato vette di ermetismo e inesplicabilità inarrivabili, posso credere che abbiano nascosto una gestazione al di fuori del matrimonio, ma non che siano arrivati ad occultare l'esistenza terrena di una figlia, ad abbandonarla, darla in adozione o altro. Possibile che un'altra Capasso giri ancora per il mondo, all'oscuro, ancora più di noi?
No dai, deve essere così, che è nata morta.
Eppure vorrei averne una conferma: un pezzo di carta, un certificato di morte, una testimonianza orale; un luogo dove piangere il corpicino di una zia mai nata. Della clinica di San Ciro a Napoli, dove dovrebbe essere venuta al mondo, per morire, non ho trovato tracce. Ma cercherò ancora.
In base alla legge, ed è un Decreto Regio del'39, i bambini natimorti sono registrati all’anagrafe ed hanno tutti i diritti che spettano ad ogni altro essere umano. Quindi anche il diritto alla sepoltura e alla cerimonia funebre.
Dunque adesso sono in cerca di una tomba. Una tomba nella quale i miei nonni hanno seppellito un pezzo del loro e del nostro passato.

I muri parlano.

Mio padre non ha mai avuto una grande passione per la musica. Mi correggo: gli piace cantare, O surdato innammurato e Munastero 'è Santa Chiara mentre guida, ma di dischi in casa mia ne sono sempre circolati pochini. Così pochi che me li ricordo praticamente uno per uno.
C'era un doppio dei Beatles, James Brown, un cd di Eric Clapton (uno anche con BB King), i Credence Clearwater Revival, souvenir di una missione negli Stati Uniti. Un totale esterofilo, mio padre, più che un napoletano, tant'è che la scarna collezione non annoverava nemmeno un cd di Pino Daniele che io ricordi, vergogna. Però per sbaglio c'era Erotica di Madonna. L'avevamo comprato da regalare a mio cugino, e poi ci avevamo ripensato, forse non era troppo adatto ad un cresimando. Così la Ciccone più impudica era rimasta lì, tra il blues e il country, come una scarpa spaiata.
Nel novero della musica eletta, una cassettina dei Pink Floyd, The Wall. Mi piacevano i disegni sul libretto, con quelle figure colorate e inquietanti che sbucavano dai mattoncini bianchi contornati di nero. Ero troppo piccola perché altro che questo mi rimanesse in testa, ma lungo quel muro ho camminato senza saperlo per tutta la mia vita, visto che il disco è nato e ha varcato la porta d'ingresso solo pochi mesi prima di me. E quando nell'89 ero in Germania, a vedere die Mauer cadere in televisione, perché a Berlino non ci potevamo andare, che mio padre lavorava per l'altro blocco, The Wall c'era ancora, come sottofondo musicale e concettuale.



Si è innalzato di nuovo l'altra sera per me, 2011, al forum di Assago, che si chiama Mediolanum e c'ha su un biscione vecchia Fininvest mica da ridere, ma non ditelo a Waters, che oggi accosta il simbolo dei martelli incrociati alla M di MacDonald's e alla stella Mercedes, e li fa scendere tutti a pioggia dai bombardieri, nella sua spettacolare scenografia. Spettacolare? È troppo riduttivo. 70 euro spesi bene, e gliene avrei dati anche di più. A bocca aperta, tutto il tempo. Quadrifonia perfetta. Fuochi d'artificio, e in un palazzetto. Voce limpida e potente come e più di allora. Musicisti eccelsi. E una perfetta commistione tra rievocazione del film, citazioni visive dei live dei tempi, grafica moderna con sconfinamenti nel 3d, effetti sonori paura. Non un revival, uno di quei concerti tristi di vecchie glorie con bastone e cappello a raccattare le ultime elemosine. Il passato rivisto, il vero The Wall 30 anni dopo. Per fare la conta dei nuovi -ismi, osservare le mutazioni genetiche dei nostri spauracchi, svuotarci le tasche e prendere atto di tutto – e tutti – quelli che ci siamo persi per strada. Il nemico si è evoluto, la civilizzazione avanza, la big Mother, la paura, resta, in nuove forme, più frantumate, volatili, e oggi We don't need no education We don't need no thought control vuol dire qualcosa di diverso, forse ancora di più, di quello che voleva dire nel '79, anzi la somma di quello, più quello che abbiamo imparato in questi anni, camminando lungo il muro, di cui purtroppo ancora non vediamo la fine.
The Wall ci ricorda i nostri nemici, le nostre divisioni. È esso stesso un nemico, che continua a riformarsi, in varie parti del mondo, e non sempre sotto spoglie materiali.
Comunque sia, fortuna che sorgesse quel muro, in mezzo alle mie mura; fortuna che c'era quel disco, nel soggiorno di casa mia. Pensa ci fosse stato Nino D'Angelo. Dai, sarebbe stato molto peggio, papà.
Risalendo dal paese di Civate sul sentiero che porta alla Basilica di San Pietro al Monte, a un certo punto, deviando a sinistra, se si attraversa un pratone e si scollina, si spunta su uno sperone di roccia che affaccia a sud e domina l'inizio del territorio della Brianza Lecchese. Ai piedi hai Civate, a sinistra Galbiate, di fronte Oggiono, a destra Bosisio Parini. Con gli occhi puoi seguire le macchinine che sulla direttrice della statale 36 dal Lecchese si spingono fino a Milano. E al di là della foschia e dell'inquinamento, puoi immaginare di vedere anche la Madonnina. È il luogo che i ragazzi civatesi chiamano “i tre laghetti”, perché in quel punto con la vista abbracci il lago di Pusiano, quello di Oggiono e quello di Annone, questi ultimi separati solo da una stretta lingua di terra, la penisola di Isella. Non è un posto conosciutissimo, e se vai su non trovi quasi mai nessuno. Noi ci ha portati un amico civatese, che ce ne ha messi a parte quasi in confidenza, come a voler condividere un piccolo segreto, a volerci regalare uno spicchio di confraternità. E gliene sono grata, perché quella sera di qualche giorno fa siamo rimasti incantati come bambini a vedere la luce del sole affievolirsi e spegnersi su quel presepe naturale, mentre si accendevano ovunque le luci dei lampioni, e i fari delle auto, e anche le nostre giornate storte, sporche, innaturali, si chiudevano, in quel momento, lasciandoci intravedere qualcos'altro. Se non altro, che sulla tua urbanità, da lì sopra, riuscivi pure a sputarci sopra.
In quel panorama a 180 gradi, l'acqua, il verde, le case, e le opere dell'uomo, sembrano stare ancora - quasi - in equilibrio.
Eravamo talmente imbambolati che avevamo sottovalutato o del tutto scordato l'eventualità di tornare sulla terra, e che col buio nel bosco è più scuro, e a scendere giù dal sentiero non ci avremmo visto un accidente.
Caracollando, in bilico tra la fretta e il rischio di inciampare, in corsa contro il tempo e il tramonto siamo tornati finalmente sull'asfalto. Un po' un paradosso, ma così eravamo salvi.
Graziati e in stato di grazia, ondulanti sulle ginocchia, ce ne stavamo scendendo al bordo della strada, tutti in fila, quattro umani e tre cani, quando passando davanti alla palestra del paese, là dove comincia anche il marciapiede, riverso su quest'ultimo abbiamo visto un gatto. Sdraiato sul fianco, gli occhi spalancati e fissi, il corpo era incolume, tale che sembrava dormire, ma le zampe rigide e la stranezza del giaciglio denunciavano che era più morto che assopito. Gli siamo passati accanto, con la crudeltà dell'uomo comune. A occhio non c'era più molto da fare, se non proteggere la salma dalla curiosità e dalle zampe dei nostri cani. Già quello spettacolo, per quanto totalmente incruento – non c'era un goccia di sangue, una ferita, un graffio - aveva disegnato una piccola crepa nel mio stato di nirvana, quando a pochi metri vedo sopraggiungere, all'altro lato della strada, una signora a spasso con un barboncino. La guardo appena, come si guarda una perfetta sconosciuta, ma faccio in tempo a vedere il suo viso, anch'esso tranquillo, sereno, come la media di tutti quelli che alla sera si fanno una bella passeggiatina col proprio cane, spezzarsi in una smorfia nel momento in cui vede il suo gatto.
Io che ero l'ultima della fila rimango impietrita: la signora scoppia a piangere, attraversa la strada, ai piedi della bestiolina si ferma, non ci crede, con gli occhi mi chiede aiuto. Accorro a prenderle il cane per il guinzaglio, mentre lei biascica qualcosa, non capisco bene, sembra straniera. Prende in braccio il gatto, che scruto meglio, ma non c'è nessunissimo segno di ciò che è avvenuto. Gli altri ragazzi stanno indietro, li sento dire “l'avranno avvelenato”, il micio è talmente indenne, l'occhio così vivido che non sembra morto. Ed è tutto talmente assurdo, io da sola lì, il momento inaspettato, l'animale illeso, il dolore della donna, così plastico, così da tragedia greca, che per un attimo nella mia infinita congenita diffidenza mi figuro sia tutta una messa in scena, che da un momento all'altro sbuchi qualcuno dalla siepe, con la pistola o il coltello, e mi tocchi mettere alla prova le mie lezioni di commando krav maga.
Le chiedo comunque se posso aiutarla, se posso chiamare qualcuno, ma lei ha voglia solo di imprecare contro chi le ha fatto questo, augurandogli la stessa fine del gatto. Si riprende il guinzaglio del barboncino e, sempre piangendo, al braccio sinistro il suo animale morto, alla destra quello vivo, si incammina dalla parte opposta. “Non dovevo portarti a Italia, dovevo lasciarti a Romania”.
Così le sento dire mentre ancora incredula e impotente le volto le spalle. Dall'altra parte della strada c'è un uomo alla guida di un'auto, ferma, il classico papà che aspetta che la figlia esca dalla palestra, che commenta senza compassione: “L'hanno investito, l'ho visto. L'hanno preso in pieno e non si sono fermati”.
Evidentemente non l'hanno schiacciato, solo sbalzato via, tolto dalla strada e dal mondo terreno in un colpo. L'asfalto che ha messo in salvo noi è stato la morte per lui.
E a questo penso, col sangue gelato, mentre raggiungo il mio gruppetto dei vivi. Il creato che si scontra con l'uomo, in mille forme e paesaggi. Gli tsunami, le centrali nucleari in fiamme. Questo aprile anomalo che pare luglio. Questi paesi brianzoli a natalità zero che nonostante tutto si espandono mangiando il verde.
In fondo me lo auguro anch'io, come quella signora, che ci sia una vendetta. Che la terra si apra e ci divori; gli alberi ci crollino addosso, le montagne franino; le fabbriche esplodano, i satelliti precipitino. Vorrei vedere in un immenso armageddon scatenarsi tutti i tornado, le saette e i maremoti, e la natura riservarci la stessa brutale fine che ogni giorno facciamo fare a lei.


Foto by ©Ra Boe/Wikipedia
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Frasi fatte sulle donne. Donne fatte senza frasi.

Ci sono molte cose sbagliate che puoi dire a una donna.
Ad esempio, “Ti amo Giorgia”, quando lei si chiama Daniela. E ti assicuro che non è bello per Daniela, soprattutto se è con lei che in quel momento stai facendo bunga bunga.
Questa, certo, è una circostanza eclatante. Ma qui non si tratta di stilare la top ten dei miei casi limite. Ci rientrerebbe del resto anche la frase, anzi, la domanda “Ma a te non va che stiamo assieme tutti e tre?”, che, ti assicuro, è una proposta indecente che la tua donna non ascolta volentieri. A meno che la tua donna non sia Melissa P.

Queste fattispecie sono già oltre, siamo nell'ambito del clamoroso. Per dire qualcosa di sbagliato a una donna non devi andare così lontano. Basta cominciare una frase con “Mia madre” e finirla con “meglio”. Laddove il predicato verbale può essere “stira le camicie”, “fa l'arrosto”, o qualsiasi altra edificante attività si suppone debba fare o saper fare una brava signora.
In tema di frasi sbagliate di questa tipologia come dimenticare le osservazioni sull'abbigliamento (“Devi proprio mettere quel vestito?”) o sulla forma fisica (“Ti vedo bella in carne”). Eccetera.
Ma il punto non è nemmeno questo. All'origine di queste ultime frasi c'è una banalissima mancanza di tatto. In pratica, c'è la genetica. E si finisce nel classico discorso sulla dicotomia tra sensibilità delle donne e rozzezza degli uomini, robe da leggere, e già lette, sui soliti blog in gonnella.
Femminino contro meschino. Pardon, mascolino.
Che poi è tutto da vedere, perché mica tutti gli uomini sono dei trogloditi insensibili. Ci sono le eccezioni. Tipo, i gay, immagino.

Ad ogni modo non è questo. Ho in mente qualcos'altro ancora. Frasi fatte che toccano qualcosa di più vivo, più profondo. Che danno ai nervi, perché toccano nervi scoperti. Che fanno danno ai nervi, perché lasciano scoperti.
Alcuni esempi.
Lei è nervosa, irritabile, ha sbalzi di umore? La tua interpretazione: “Sei mestrua”.
Lei è sarcastica, ti risponde a tono, ti contesta? “Sei come tua madre”.
E se invece lei è fredda, un po' apatica, o tiene il muso - e hai già escluso che sia mestrua, naturalmente - in questo caso è perché non tromba.
Ora, quello che urta in questa fraseologia non è la totale assenza di diplomazia, vedi sopra, ma lo stereotipo, la semplificazione, il cliché. Tutta la casistica degli stati d'animo femminili la decodifichi così. Sindrome mestruale o astinenza prolungata. Non esiste che lei sia in un brutto periodo, che abbia mille pensieri, che sia preoccupata per questo o quello. O che non sappia manco lei che le frulla per il cervello, cosa sia quel fastidio sotto al materasso che la fa girare e rigirare di notte, e non le fa prendere sonno. Quel fastidio, per te, è semplicemente un pisello. Ma non quello della principessa della fiaba.
Per te è tutto da ascrivere alla fisiologia. Per lei alla psicologia.
E queste sono le frasi sbagliate più sbagliate, perché a lei, alla donna, la lasciano inerme. Rimane sola, in un angolo, senza riuscire a ribattere, senza parole. Sola col suo essere complicata, ciclica, figlia, femmina. Sola con le sue mestruazioni.
E immagina, se fosse mestruata davvero. Sentendoti, sarebbe doppiamente incazzata.
Perché in fondo lei ci pensa, a differenza di te: e se avesse ragione lui? Se fosse tutto così semplice? E la palla rimane ferma, a mezz'aria, in mezzo al campo da gioco. Tutto detto, tutto non detto.

Tu però non dirgliele se puoi, quelle frasi. Che quelle cose le sa già. Ce l'ha stampate dentro, addosso, dappertutto. E se dovesse dimenticarlo, che è un casino essere donna, c'è sempre chi glielo ricorda. Ogni 28 giorni.
Di deficienti, si sa, c'è sempre stata abbondanza.
In questi giorni si è parlato tanto di uno in particolare, un prete, o meglio un pastore della Florida, che ha tenuto banco per aver minacciato di bruciare una copia del Corano nell'anniversario dell'11 settembre. Lo brucio, no non lo brucio più, guardate che lo brucio, e va bene, lo brucio.
A prescindere da cosa accadrà domani, io non ce l'ho con lui. Come si potrà facilmente evincere, il Signore non ha dotato di intelletto tutti in egual misura, a maggior ragione se trattasi di preti.
Ripeto, non ce l'ho col deficiente in questione, deficitario di tolleranza, buon senso, amore cristiano. Ce l'ho con le agenzie di stampa, i direttori di giornali, e chiunque abbia contribuito a montare questo caso mediatico che ha monopolizzato per 10 giorni le televisioni, i giornali, le testate web mondiali.
Ogni giorno si alzano miliardi di deficienti, che hanno tutto il diritto di bruciare un libro in giardino, strappare la foto del Papa, mangiare feci canine, volendo. Ma coloro che propagandano la notizia – mettendola prima di tante altre, forse più interessanti e utili per l'umanità – e la portano alle orecchie di altri deficienti, magari incavolati e/o armati, hanno una responsabilità, e una colpa, enorme. E per costoro la parola deficiente è purtroppo deficiente.