Mi hanno lasciato molto, i miei nonni materni.
Soprattutto, segreti.
La prima eredità che ho ricevuto è stata l'incertezza sul nome di mia madre.
Quando ero piccola, sentivo tutti chiamare mia mamma Annamaria, tuttattaccato. E festeggiare il suo onomastico – siamo terroni, nella mia famiglia si usa così - il 26 luglio, Sant'Anna. Per mio papà e mio nonno invece lei era solo Maria. E mio nonno arrivava regolarmente al 12 settembre con un fiore, una sporta di dolcetti, o un regalino. Io non mi sono mai posta il problema. Mi era stato spiegato che il nonno preferiva quel nome perché anche sua madre si chiamava così, e che era stata mia nonna ad insistere per dare la precedenza al nome Anna, perché è la protettrice delle partorienti.
Mia nonna Olimpia ha avuto una gestazione difficile. Era già piuttosto avanti con l'età per i tempi, per affrontare una gravidanza. E non era Gianna Nannini, ma un donnone pesante con molti chili di troppo addosso, oltre al pancione. Aveva fatto un voto a Sant'Anna, cui era dedicato l'ospedale di Napoli in cui era ricoverata, che se fosse andato tutto per il verso giusto le avrebbe intitolato il suo dono più grande: sua figlia.
Così era stato, e a tutti i costi lei aveva preteso che si rispettasse il suo voto, che mia madre si chiamasse come primo appellativo Anna. Aveva vinto le insistenze di mio nonno, che si era accontentato del secondo posto, o almeno questo era quello che si pensava.
La verità i miei l'hanno scoperta quando si sono sposati, e anche a me è stata raccontata una volta raggiunta l'età per capire. Ma veramente capito mio nonno non l'ho mai, e proprio non l'ho ancora.
Al momento di espletare le pratiche per il matrimonio, nel 1978, i miei genitori si sono ritrovati davanti i certificati di nascita e di battesimo, e i documenti della comunione e della cresima, che discordavano completamente. Carte che dicevano Annamaria, altre che spacciavano mia madre per Maria Anna, altre ancora solo Anna o solo Maria, e tutte le diverse coniugazioni, con o senza spazi.
Mia madre, che per fortuna non ha mai sofferto di crisi d'identità, aveva un problema più concreto: che non la lasciavano sposarsi, e questo dopo sei lunghissimi anni di fidanzamento, tanti quanti ne aveva dovuti aspettare per ottenere dallo Stato di potersi unire civilmente con mio padre, che era militare nell'Aeronautica e per le regole di allora doveva raggiungere i 25 anni per contrarre matrimonio.
Sei anni di “io mammete e tu”, di visite domenicali, di rare uscite scortate, di sorveglianza rigida da parte mio nonno, che oltre ad essere terrone era pure poliziotto, e possedeva una rete di informatori in tutto il paese.
Insomma, i miei genitori rosicarono non poco quando scoprirono che il cavillo del nome impediva loro di convolare a nozze. E del resto lo Stato voleva sapere se mio padre si sposava con Anna o con Maria.
Ma perché, ma per come, indaga di qua e di là, nessuno riusciva a scoprire dove era nato l'inghippo. Poi non so esattamente come andò, ma un lungo pressing spinse mio nonno a confessare, che in realtà, sì, gli era stato detto di registrare sua figlia prima come Anna, e poi come Maria, ma che, una volta in Comune, davanti all'ufficiale, aveva deciso che se fosse stato viceversa nessuno se ne sarebbe accorto.
In seguito, vuoi per i suoi goffi tentativi di insabbiare la faccenda, vuoi per incuria burocratica, anche all'atto del battesimo, della comunione, e di tutti gli altri sacramenti, la confusione era aumentata ulteriormente, a dismisura.
I miei sono riusciti a sposarsi, infine. Mia mamma si è rifatta il codice fiscale, la carta d'identità e quant'altro, ha abbandonato Sant'Anna, ed è rimasta sempre Maria. Per tutta risposta né io né mia sorella abbiamo un secondo nome; i miei genitori si sono imposti questo veto, che varrà per quanto mi riguarda anche nei secoli a venire su nipoti e pronipoti.
Ciò che mi ha sconvolto, e che continua a tormentarmi ancora, non è la storiella in sé. È l'idea che mio nonno abbia potuto per 22 anni fingere che sua figlia si chiamasse in un altro modo, che per 22 onomastici abbia festeggiato in cuor suo un altro nome; gioito da solo, forse, di questa sua piccola marachella, ma gioito nell'inganno. Non gli importava come la chiamassero gli altri, quale fosse il nome che la figlia scarabocchiava da piccola, imparando a scrivere, o cosa fosse riportato sul libretto delle giustificazioni, non gli interessava il benché minimo di aver turlupinato sua moglie, gli bastava saperlo lui; e tutti gli anni, al 12 settembre, mangiarsi una babà alla facciazza di tutti.
Non so se ci fosse quest'elemento di sfottò in lui. Probabilmente no, alla luce degli ulteriori avvenimenti che sono stati scoperti. Probabilmente non è che si esaltava all'idea di averla fatta franca su tutti gli altri. Era così, e basta. Rientrava tra le cose da non dire. E non era nemmeno l'unica, nemmeno tra la più grossa, tra le cose da non dire.
Mio nonno aveva un tatuaggio sul braccio, se non ricordo male quello destro. Ne ho sempre visto solo la metà inferiore, e sempre di sfuggita. Raffigurava la Madonna, e io me lo ricordo bluastro, molto andato, la fattura del tipico tattoo del galeotto.
In piena estate la camicia di mio nonno copriva tutto il braccio, almeno fino al gomito; spesso era a maniche lunghe, rigirata con ampi risvolti. Anche sulla spiaggia, a mezzogiorno di ferragosto, il nonno era coperto fino al midollo.
Lo faceva per nascondere l'immagine di Maria; così come aveva nascosto per tanto tempo il nome, di Maria.
Mia mamma dice che si vergognava di quel marchio, magari per una questione di onorabilità, che lui in fondo era un poliziotto. E anche di mentalità: i tribali e gli ideogrammi di oggi mio nonno non li capiva. Il tatuaggio non era una moda, era una cosa da delinquenti.
Sapevo poco di quel tatuaggio. Solo che era stato fatto durante una lunga traversata in nave, alla fine della guerra. Nonno Salvatore era stato catturato in Africa, e gli inglesi lo avevano portato prima in un campo in India, e da lì, dopo lunghe settimane di navigazione, a Londra. Dove, a quanto diceva, lo avevano messo a lavorare alla ricostruzione della stazione Victoria.
Quel tatuaggio era un voto. Si vede che nella mia famiglia usava. Lui aveva fatto voto alla Madonna, perché non sapeva dove sarebbe finito, e temeva che sarebbe rimasto per sempre lontano da casa. Scriveva sulla sua pelle, per aver salva la pelle, perché il viaggio era lungo e molto faticoso.
Non si sapeva nient'altro di quel periodo.
Solo che mia nonna diceva che mio nonno non tornava più, dalla guerra. Che tutti erano rientrati, e lui no, e lo avevano quasi dato per morto.
Infatti le cose tornavano. La guerra è finita nel '45, mia mamma è nata nel '56, perché altrimenti tanta attesa?
Mia madre è figlia unica. Nata che mia nonna era già agè, dopo tante complicazioni, alla prole non era stato dato un seguito. Ci avevano riprovato i nonni, ma un po' perché erano già in là con l'età, e un po' perché il primo parto era stato così difficile, al secondo tentativo la nonna aveva subito un aborto spontaneo. Così sapevamo.
Mia mamma non ha fratelli o sorelle dunque, ma una volta aveva tanti cugini, perché entrambi i suoi genitori facevano parte, secondo la bella usanza di un tempo, di famiglie numerose. Poi ci si sono messi la distanza – i parenti erano a Napoli, mia mamma era in provincia di Pisa, praticamente dalla nascita, da quando mio nonno era stato trasferito al comando di Pontedera – e oltre alla distanza le faide familiari. Le sorelle di mia nonna questionavano tra loro e dovevi prendere le parti, e quella si offendeva, e quell'altra non ti parlava più, era un delirio, anche a 500 e passa chilometri di distanza. Mio nonno, idem, non abbiamo mai capito esattamente quanti fratelli avesse. Qualche anno fa mia madre ha scoperto che le era morta una zia paterna, di cui non aveva mai saputo l'esistenza. Perché mio nonno ci aveva litigato. Sembra inventato, ma è vero, lo giuro.
Insomma, negli anni i rapporti tra mia madre e i suoi cugini si sono non volendo sgretolati; e solo alla morte di quella generazione fratricida, nell'ultimo decennio, mia madre è riuscita a recuperare i legami con una sua cugina, la più moderata, e con i suoi figli, i cui tratti caratteriali fortunatamente non sono stati inficiati troppo dal dna.
Sua cugina è più anziana di lei, una vera napoletana, che mia madre non può davvero dirsi tale; simpatica, con la parlantina veloce e squillante, e la risata da chioccia. Quando si vedono, la conversazione ruota tutta attorno ai figli e ai nipoti. Tema: i successi e i guai, più i secondi che i primi, di ogni trenta/quarantenne d'Italia. Raramente parlano del passato; soprattutto mia madre, verosimilmente per come è cresciuta, e per le cose di cui sopra, non guarda mai indietro, non rimugina, non si fa troppe domande.
Io – ora - non so invece come sia andata la chiacchierata di quel determinato giorno. Come siano finite a parlare della nonna Olimpia, e della creatura che ha avuto prima della nascita di mia mamma. Sì, non dopo. Ma prima.
Posso solo immaginare il colpo che deve esser preso a mia madre. E se non l'ha avuto, è appunto perché troppe domande non sa farsele, o meglio ha imparato a non farsele, per vivere meglio.
Mia mamma sapeva che mio nonno era tornato molto tardi dalla guerra, e lui e la moglie si erano sposati nel '55, e lei era nata l'anno dopo, figlia tanto desiderata. Sapeva che avevano tentato di darle un fratellino, ma la nonna aveva abortito. Ecco, in verità aveva perso un bambino prima della sua nascita. E prima dunque anche del matrimonio.
Gliel'ha detto la cugina Carmelina, pescando tra i suoi ricordi di bambina: Olimpia, la sorella minore di sua madre, in quel periodo stava sempre chiusa in casa, e non si faceva vedere mai. Carmelina, che era piccola allora, intravedeva appena la figura di quella ragazza, entrare e uscire dalla camera; pensava che fosse grassa, e invece era anche incinta. Infatti un bel giorno Olimpia lasciò, per un po', quella casa; alla nipotina dissero che era andata all'ospedale, a partorire, ma poi tornò senza bambino. Secondo la sua testimonianza, la gravidanza era giunta al nono mese, ma non era arrivata a buon fine a causa di una nefrite.
La scoperta di questa zia mai nata – perché in realtà di una bambina parlava, la cugina Carmelina - si è adagiata nel mio subconscio, come cade una piuma. Il turbamento è stato tutto mio, e di mia sorella, più che di mia madre.
Naturale che dei dubbi siano sorti. Ha perso davvero la bambina, o l'ha voluta perdere? Siamo a San Pietro a Patierno, provincia di Napoli, negli anni '50, e lei non è sposata. È vero che prima del '78, in Italia, l'interruzione volontaria di gravidanza era un reato, ma c'erano tanti sistemi. L'altra mia nonna, nonna Ida, me li raccontava a volte, con un certo sottile gusto del macabro in cui mi decisamente mi riconosco. Se si desiderava interrompere una gravidanza, allora, a Napoli, i metodi più usati erano: infilzarsi con l'ago dell'uncinetto; o farsi lavande con l'aceto. Insomma, anche senza RU 486, il modo si trovava. Chissà che anche nonna Olimpia, invece di andare all'ospedale non sia andata da qualche medico da strapazzo o da qualche stregona. Carmelina disse che era stata in una certa clinica San Ciro, vicino alla Salita dei Pompieri, ma vai a sapere.
Che i nonni non fossero sposati per lo Stato prima del 1955 ce lo dice l'Ufficio Stato Civile del Comune di Napoli.
Grazie al marito di Carmelina che saputo della nostra curiosità si è interessato personalmente.
“Addì 22 gennaio dell'anno 1955 nella sezione di San Pietro a Patierno contrassero matrimonio civile Capasso Salvatore, di anni trentanove, e Serino Olimpia, di anni trentasei.”
Ecco ma perché sposarsi così tardi?
Cosa è successo? Cosa è vero, cosa non lo è?
E mio nonno, quando è tornato dalla guerra?
Dove diamine è stato dal '45 al '55?
Senza contare un altro problema, ben più grosso, e più irrisolvibile: come hanno fatto i miei nonni a nascondere tutto questo a mia madre, per tutta la vita e oltre? Con che cuore se lo sono portati nella tomba, questo segreto? Dico, magari ti vergogni, non vuoi dare il cattivo esempio, tutto quel che vuoi, ma quando tua figlia ha 20, 30, 40 anni, non gli vuoi aprire il tuo animo e liberarti di quella pietra, o di una delle pietre, sotto cui l'hai sepolto?
Evidentemente no. E questo la dice lunga sul dialogo che intercorreva tra mia madre e i suoi.
Ad ogni modo, quest'ultima questione resterà sempre senza risposta. Si può tentare di stabilire la storia, ma le motivazioni rimarranno secretate per l'eternità.
Indaghiamo su internet, io e mia sorella. Ci deve essere un database dei prigionieri di guerra. Vogliamo sapere fino a quando risulta che mio nonno sia stato a Londra, prigioniero degli inglesi.
Scopriamo che la Croce Rossa Internazionale ha in mano un registro dei POW camps, dove POW sta per prisoners of war.
I parenti di familiari deceduti hanno diritto di fare richiesta della scheda dei POW, e di ricevere risposta entro un anno.
E la risposta dopo un anno è arrivata.
Salvatore era tra i 35.000 soldati della battaglia di Tobruk. Giugno 1941. I documenti della Croce Rossa confermano i racconti che ci sono stati fatti. Il vedere le date però, scritte nere su bianco, e la scheda di mio nonno con la sua firma, è tutta un'altra cosa, al confronto con quei sedimenti di ricordo, con il tempo che trasforma gli avvenimenti in favolette.
Mio nonno, dopo Tobruk, che già non deve essere stata una passeggiata, è rimasto un intero anno in un campo in Egitto; dal '41 al '44, tre anni, in vari luoghi di detenzione in India; e ancora un anno in Inghilterra: prima a Londra, poi sotto Liverpool, poi di nuovo a Londra, gli ultimi mesi. Dal 1941 al 1945 gli inglesi, il destino, o la sfortuna, gli hanno portato via più di quattro anni della sua vita.
Non so come fossero le condizioni detentive. Presumo buone; ho letto qualcosina, ancora poco, su dei campi per ufficiali in India, precisamente a Yol, sotto l'Himalaya; i ragazzi non se la cavavano male, riuscivano ad organizzarsi e addirittura a distillarsi la grappa con ordigni artigianali. Ma mio nonno non era un ufficiale e non era a Yol, e forse se si è tatuato quel Madonnone da ergastolano, proprio preso bene non era. Mi leggerò quel che si riesce a recuperare. Non lo so, mio nonno non ha certo manifestato interesse affinché condividessimo quest'esperienza con lui. Però credo di doverlo fare, lo stesso o proprio per questo. E poi ci sono ancora elementi che non sono del tutto chiari. C'è una voragine di una decina d'anni, tutta da colmare.
Le scartoffie della Croce Rossa datano l'ultima informazione ufficiale su Salvatore Capasso a marzo del 1945. Dopo quella data, finisce la custodia delle forze armate inglesi.
Salvatore ha 27 anni, e una fidanzata a Napoli, che lo aspetta almeno da 5. Una relazione a distanza oggi improponibile, nemmeno con il supporto delle migliori tecnologie di web-conference.
L'arrivo del plico su mio nonno ha comunque scosso qualcosina in mia madre, che di notte si è ritrovata a scartabellare tra le vecchie fotografie, in cerca di date.
Ci sono delle cartoline che mio nonno mandava da Massa, dove era stato mandato di stanza prima del trasferimento a Pontedera, datate 1950, ed indirizzate “alla sua sposa”. Dicono proprio così. Eppure in quell'anno dovevano essere solo fidanzati.
E poi c'è una foto, tra le logore pagine di un album, in cartoncino verde petrolio. È l'unica foto che ritrae nonna Olimpia e nonno Salvatore con i loro testimoni di nozze. Sono davanti al Santuario di Pompei. Hanno tutti sul viso un'espressione abbastanza trionfante. Mia nonna soprattutto, ha quell'aria un po' impudente, un po' “a me non mi freghi”, da Filumena Marturano, la stessa che ha oggi anche qualche peruviana d'importazione; la faccia della femmena che ce l'ha fatta, o vuole farti credere che ce l'ha fatta.
Al di là di tutto, la nonna non indossa l'abito bianco. E, ci siamo accorti, non esiste una sola foto della nonna col vestito bianco da sposa. Non ci avevamo MAI fatto caso.
Quella deve essere la foto del loro matrimonio. Tutto ci fa pensare che quel giorno è avvenuto il rito religioso, che mia nonna non si è sposata in bianco perché non era vergine; e che l'ha fatto a Pompei, senza un parente, alla sola presenza dei testimoni, per stare fuori zona, e forse per l'idea di espiare qualcosa, vista la presenza del noto santuario.
La foto non è datata purtroppo, ma è probabile che risalga a prima del 1950, prima che mio nonno definisse Olimpia “la sua sposa”. Insomma, si sono sposati solo in Chiesa prima del '50, e poi civilmente nel '55. Quella cerimonia sottotono è stata organizzata a fattaccio già successo, o in procinto di succedere? La sorellina di mia madre quando è nata? E il fatto che a Pompei ci sia un famoso ricovero delle suore per i bimbi indesiderati c'entra qualcosa? Dio solo lo sa. E anche la Madonna, che in questa storia ricorre sempre più spesso.
La cugina di mia madre ha poi aggiunto anche altri tasselli al puzzle. Pare che al ritorno a casa, che deve essere avvenuto via mare, perché mio nonno diceva di aver passato lo stretto di Gibilterra, egli abbia dapprima tentato di rimettere in sesto il negozio di calzature di suo padre, Gennaro. Ma con la guerra appena finita, la nuttata appena passata, non c'erano molte possibilità di far business con un negozio di scarpe a Napoli. Così si è arruolato, inizialmente nella Guardia Regia. Questo significa che è stato reclutato prima del referendum repubblica-monarchia, a giugno 1946. E dunque è una boiata che il nonno non tornava più dalla guerra, se da marzo '45, quando è stato rilasciato, a giugno '46 (referendum) ha fatto in tempo a tentare la carriera dello scarparo e quella del militare monarchico; al massimo avrà tardato sei mesi a tornare, ma ad ogni modo la storiella del prigioniero di guerra perso per le strade d'Europa sembra solo una scusa per coprire il buco spazio-temporale delle loro vicende, agli occhi di mia madre e dei posteri.
Ci avete fregato per 60 anni, nonni, mo' basta.
Niente, poi a consultazione referendaria avvenuta, Salvatore è entrato in polizia. Prima fu trasferito a Massa, poi a Pontedera. Supponiamo che avesse dei limiti di legge anche lui, per sposarsi secondo il rito civile, magari dieci anni dall'entrata in servizio, dal '45 al '55, questo spiegherebbe perché ha aspettato di averne compiuto 39 per sposarsi in Comune. Ma non per impratichirsi con le gioie della vita coniugale, e questo spiega la “figlia del peccato”.
Di più non è dato sapere.
Di tutto questo non rimane che un grande viluppo di bugie, sotterfugi, discorsi tronchi, “è così e basta” che solo in parte siamo riusciti a dipanare.
E se da qualche a Napoli ci fosse una donna, sui 60 anni, una Filumena tutta sola, che avrebbe tanto voluto delle nipoti, e una sorella, come la mia?
Difficile crederlo. Sebbene i miei nonni abbiano toccato vette di ermetismo e inesplicabilità inarrivabili, posso credere che abbiano nascosto una gestazione al di fuori del matrimonio, ma non che siano arrivati ad occultare l'esistenza terrena di una figlia, ad abbandonarla, darla in adozione o altro. Possibile che un'altra Capasso giri ancora per il mondo, all'oscuro, ancora più di noi?
No dai, deve essere così, che è nata morta.
Eppure vorrei averne una conferma: un pezzo di carta, un certificato di morte, una testimonianza orale; un luogo dove piangere il corpicino di una zia mai nata. Della clinica di San Ciro a Napoli, dove dovrebbe essere venuta al mondo, per morire, non ho trovato tracce. Ma cercherò ancora.
In base alla legge, ed è un Decreto Regio del'39, i bambini natimorti sono registrati all’anagrafe ed hanno tutti i diritti che spettano ad ogni altro essere umano. Quindi anche il diritto alla sepoltura e alla cerimonia funebre.
Dunque adesso sono in cerca di una tomba. Una tomba nella quale i miei nonni hanno seppellito un pezzo del loro e del nostro passato.