Risalendo dal paese di Civate sul sentiero che porta alla Basilica di San Pietro al Monte, a un certo punto, deviando a sinistra, se si attraversa un pratone e si scollina, si spunta su uno sperone di roccia che affaccia a sud e domina l'inizio del territorio della Brianza Lecchese. Ai piedi hai Civate, a sinistra Galbiate, di fronte Oggiono, a destra Bosisio Parini. Con gli occhi puoi seguire le macchinine che sulla direttrice della statale 36 dal Lecchese si spingono fino a Milano. E al di là della foschia e dell'inquinamento, puoi immaginare di vedere anche la Madonnina. È il luogo che i ragazzi civatesi chiamano “i tre laghetti”, perché in quel punto con la vista abbracci il lago di Pusiano, quello di Oggiono e quello di Annone, questi ultimi separati solo da una stretta lingua di terra, la penisola di Isella. Non è un posto conosciutissimo, e se vai su non trovi quasi mai nessuno. Noi ci ha portati un amico civatese, che ce ne ha messi a parte quasi in confidenza, come a voler condividere un piccolo segreto, a volerci regalare uno spicchio di confraternità. E gliene sono grata, perché quella sera di qualche giorno fa siamo rimasti incantati come bambini a vedere la luce del sole affievolirsi e spegnersi su quel presepe naturale, mentre si accendevano ovunque le luci dei lampioni, e i fari delle auto, e anche le nostre giornate storte, sporche, innaturali, si chiudevano, in quel momento, lasciandoci intravedere qualcos'altro. Se non altro, che sulla tua urbanità, da lì sopra, riuscivi pure a sputarci sopra.
In quel panorama a 180 gradi, l'acqua, il verde, le case, e le opere dell'uomo, sembrano stare ancora - quasi - in equilibrio.
Eravamo talmente imbambolati che avevamo sottovalutato o del tutto scordato l'eventualità di tornare sulla terra, e che col buio nel bosco è più scuro, e a scendere giù dal sentiero non ci avremmo visto un accidente.
Caracollando, in bilico tra la fretta e il rischio di inciampare, in corsa contro il tempo e il tramonto siamo tornati finalmente sull'asfalto. Un po' un paradosso, ma così eravamo salvi.
Graziati e in stato di grazia, ondulanti sulle ginocchia, ce ne stavamo scendendo al bordo della strada, tutti in fila, quattro umani e tre cani, quando passando davanti alla palestra del paese, là dove comincia anche il marciapiede, riverso su quest'ultimo abbiamo visto un gatto. Sdraiato sul fianco, gli occhi spalancati e fissi, il corpo era incolume, tale che sembrava dormire, ma le zampe rigide e la stranezza del giaciglio denunciavano che era più morto che assopito. Gli siamo passati accanto, con la crudeltà dell'uomo comune. A occhio non c'era più molto da fare, se non proteggere la salma dalla curiosità e dalle zampe dei nostri cani. Già quello spettacolo, per quanto totalmente incruento – non c'era un goccia di sangue, una ferita, un graffio - aveva disegnato una piccola crepa nel mio stato di nirvana, quando a pochi metri vedo sopraggiungere, all'altro lato della strada, una signora a spasso con un barboncino. La guardo appena, come si guarda una perfetta sconosciuta, ma faccio in tempo a vedere il suo viso, anch'esso tranquillo, sereno, come la media di tutti quelli che alla sera si fanno una bella passeggiatina col proprio cane, spezzarsi in una smorfia nel momento in cui vede il suo gatto.
Io che ero l'ultima della fila rimango impietrita: la signora scoppia a piangere, attraversa la strada, ai piedi della bestiolina si ferma, non ci crede, con gli occhi mi chiede aiuto. Accorro a prenderle il cane per il guinzaglio, mentre lei biascica qualcosa, non capisco bene, sembra straniera. Prende in braccio il gatto, che scruto meglio, ma non c'è nessunissimo segno di ciò che è avvenuto. Gli altri ragazzi stanno indietro, li sento dire “l'avranno avvelenato”, il micio è talmente indenne, l'occhio così vivido che non sembra morto. Ed è tutto talmente assurdo, io da sola lì, il momento inaspettato, l'animale illeso, il dolore della donna, così plastico, così da tragedia greca, che per un attimo nella mia infinita congenita diffidenza mi figuro sia tutta una messa in scena, che da un momento all'altro sbuchi qualcuno dalla siepe, con la pistola o il coltello, e mi tocchi mettere alla prova le mie lezioni di commando krav maga.
Le chiedo comunque se posso aiutarla, se posso chiamare qualcuno, ma lei ha voglia solo di imprecare contro chi le ha fatto questo, augurandogli la stessa fine del gatto. Si riprende il guinzaglio del barboncino e, sempre piangendo, al braccio sinistro il suo animale morto, alla destra quello vivo, si incammina dalla parte opposta. “Non dovevo portarti a Italia, dovevo lasciarti a Romania”.
Così le sento dire mentre ancora incredula e impotente le volto le spalle. Dall'altra parte della strada c'è un uomo alla guida di un'auto, ferma, il classico papà che aspetta che la figlia esca dalla palestra, che commenta senza compassione: “L'hanno investito, l'ho visto. L'hanno preso in pieno e non si sono fermati”.
Evidentemente non l'hanno schiacciato, solo sbalzato via, tolto dalla strada e dal mondo terreno in un colpo. L'asfalto che ha messo in salvo noi è stato la morte per lui.
E a questo penso, col sangue gelato, mentre raggiungo il mio gruppetto dei vivi. Il creato che si scontra con l'uomo, in mille forme e paesaggi. Gli tsunami, le centrali nucleari in fiamme. Questo aprile anomalo che pare luglio. Questi paesi brianzoli a natalità zero che nonostante tutto si espandono mangiando il verde.
In fondo me lo auguro anch'io, come quella signora, che ci sia una vendetta. Che la terra si apra e ci divori; gli alberi ci crollino addosso, le montagne franino; le fabbriche esplodano, i satelliti precipitino. Vorrei vedere in un immenso armageddon scatenarsi tutti i tornado, le saette e i maremoti, e la natura riservarci la stessa brutale fine che ogni giorno facciamo fare a lei.
Foto by ©Ra Boe/Wikipedia
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