Scusa ma ti chiamo allucinazione.

Di fronte ad uno scrittore di grande successo popolare ed enorme esposizione mediatica, la prima cosa che penso è “venduto”, la seconda “rxttx in culo”, la terza “chissà, magari scrive bene”.
In virtù di quest'ultima curiosità e probabilmente anche della voglia di carpire il segreto delle sue vendite, ho sempre detto fra me e me: “Forse prima o poi Moccia me lo leggo. Non dico che me lo compro, ma me lo faccio imprestare”. Così come ai tempi dicevo: “Ma sì, ci vado a vedere Vasco. Quando mi regalano il biglietto del concerto.”
Poi un mesetto fa ho intercettato in mezzo ad una pila scomposta di libri dell'edicola di un aeroporto “La passeggiata”, un libello scritto da Moccia per Moccia: il racconto dell'incontro immaginario tra lo scrittore e suo padre, che non c'è più.
Costava 4 euro, e l'ho comprato. E l'ho letto tutto d'un fiato in una sera. Laddove “tutto d'un fiato” non sta per “non riuscivo a staccarmi”, ma per “fammi togliere questo dente in uno strappo solo”.
Non è troppo brutto e neanche bello. È scritto in un modo asciutto, in cui vagamente mi riconosco.
Il tema – appunto, una onirica passeggiata di un figlio e del padre scomparso – è tutto fuorché creativo, ma ammetto che, puntando su un desiderio che appartiene un po' a tutti, quello di poter avere un ultimo colloquio con una persona cara che ci ha lasciato all'improvviso, le impressioni di scontatezza e di “già visto” sono in parte stemperate.
In parte, però. Perché alcune banalità, linguistiche ad esempio, sono del tutto inscusabili: vedasi, descrivendo il Tirreno disteso al sole sul litorale laziale, l'espressione “mare d'amare”. Sì e poi? Anche “sole, cuore, amore”, magari? Così mi pare d'essere a Sanremo, non ad Anzio.
Il dipanarsi della trama, poi, è talmente liscio da essere piatto. Non ci sono nodi in questo rapporto padre-figlio. Nessuna questione irrisolta, a parte la reciproca mancanza.
Ma che noia. Che favola melensa e irrealistica.
Qualunque figlio o figlia avesse l'occasione di rivedere un'ultima volta il proprio genitore passato a miglior vita, farebbe con lui o con lei una passeggiata costellata di mine vaganti. Ve lo dico io. E quel permesso premio dell'aldilà si trasformerebbe dopo pochi passi in una punizione del Creatore, questa è la verità.

Questo scrivevo qualche settimana fa, pochi giorni prima che uscisse “Scusa ma ti chiamo amore”, scritto e diretto da Moccia. Pochi giorni prima che la tv avesse un bel rigurgito mocciano. Ho visto qualche spezzone del film. Ho visto interviste a Moccia. E direi che tutto torna.
Non mi esprimerò sull'alternativa venduto-rxttinculo-buonoscrittore di cui sopra, anche perché, ripensandoci, forse le tre cose possono coabitare in una persona; dirò solo che l'abilità di Moccia secondo me è questa: lui dà alla gente e ai ragazzi in particolare ciò che chiedono. Come la De Filippi, come Muccino-ino, come i Tokyo Hotel.
Ora, il problema sta tutto lì. Che SECONDO ME bisognerebbe dar loro la cruda realtà, il disincanto, lo scetticismo: vale a dire, non ciò che chiedono, ma ciò di cui hanno bisogno.