Ieri sera ho visto l’ultimo film della delfina Coppola sulla delfina Marie Antoinette: Marie Antoinette, appunto. L’ho trovato bello. Quasi impeccabile. Tranne - tadan, c’è sempre un tranne - per una presenza fastidiosa che a tratti ha infestato la mia visione: le giraffe. Quei microfoni per la presa diretta che ogni tanto fanno capolino dall’alto dell’inquadratura dei film e che, specie in una pellicola in costume, non puoi fare a meno di notare e di detestare. Me lo sono sempre chiesta e me lo chiedo anche adesso: ma perché?
Perché le giraffe scorrazzavano liberamente sulle volte dello schermo? Uno sbaglio della regista o una svista dell’operatore di sala? Ho cercato una risposta sulla Rete ed ecco cosa ho trovato.
1. Chi dice che è un errore della regia. Un errore voluto:
“Se è un errore fino agli anni ’50, non lo è più dagli anni ‘60 in poi (anche quando un dettaglio è veramente sfuggito ed un ciak non si è potuto ripetere). Più o meno da quando Cassavetes, muovendosi sulla strada aperta dalla nouvelle vague, ha posto il sigillo al blooper d’autore in nome di un cinema verità di cui era il pioniere americano. Nel 1970, Cassavetes infila un microfono nella scena finale di 'Mariti'. Da allora la giraffa in campo assurge a soluzione espressiva e verrà usata da molte generazioni di cineasti come vezzo cinefilo, come dichiarazione di appartenenza ad un certo tipo di cinema ed in ultimo come firma d’Autore. A farla breve, la giraffa è una strizzatina d’occhio che il regista fa al suo pubblico.”
Fonte: repubblica.it/trovacinema
2. Chi dice che è un piccolo difetto tecnico del film, in sé:
“…qualche volta però capita che l'addetto alla giraffa sbagli e dia origine al cosiddetto blooper, cioè il microfono che fa capolino per un attimo dall'alto dello schermo. Normalmente però il pubblico, preso dallo spettacolo, non si accorge di questo piccolo difetto tecnico del film.”
Fonte: fralenuvol.it
3. Chi dice che la colpa sta nel mezzo, tra regista e proiezionista:
“Nel caso l'addetto abbassi troppo la giraffa, può capitare che il microfono entri per qualche istante nell'inquadratura, generando uno dei cosiddetti blooper. Questo errore è raramente notato dallo spettatore, ma può risultare fastidioso, specie nel caso in cui il proiezionista scelga un mascherino errato (troppo grande in altezza).”
Fonte: wikipedia.it
4. E infine, chi la colpa la dà tutta ai cinematografi:
“Anche quando vedete microfoni e giraffe varie spiovere dall'alto dell'inquadratura, non si tratta di un errore. Quando si girano dei film, la pellicola prende nell'inquadratura una parte che non verrà mostrata, a seconda del formato - detto anche ratio - che avrà poi il film: 1,66:1, 1,77:1, 1,85:1, 2.35:1 sono i formati più comuni. Se poi però quando proietti il film ti dimentichi di coprire le parti (sbagliando "mascherina", cioè una copertura al proiettore per tagliare le parti di troppo e ingrandire su tutto lo schermo quello che resta) allora ottieni l'effetto di mostrare tutto quello che non doveva finire nell'inquadratura: microfoni, cavi, ecc.”
Fonte: ferraraforum.it
“Penso che non esista film a presa diretta che non presenti qualche microfono di scena ripreso nelle inquadrature. Ciò è dovuto al fatto che la scena ripresa è solitamente più ALTA di come apparirà la proiezione e quindi solo un cineasta molto esperto sa se e come il microfono apparirà nel tagliato finale.
(…) nove su dieci, la vista dei microfoni dipende solo dalla sala cinematografica (dall'operatore, dal taglio del mascherino e così via) dove il film viene proiettato. Se becchi la giornata storta o il cinema "maledetto" ecco che ti sorbisci un bel "Il Sesto Senso" dove il bambino vede i morti e tu (spettatore) vedi tutti i microfoni. Nella sala a fianco, magari, stesso film ma nessun microfono "a vista". Tutto questo per dire che, forse, - e a meno di molteplici testimonianza e/o plateali sviste - non credo sia giusto o corretto annoverare tra i bloopers di un film (p.e. Chocolat) la presenza di microfoni in campo (soprattutto, come nell'esempio citato, quando l'accadimento è ripetuto e continuo, e difficilmente sarebbe "passato" durante il montaggio). Mi sta bene che lo citi come "errore comune", ma non mi sembra giusto che citi come blooper un difetto derivante esclusivamente dall'incuria dell'operatore della sala dove il film è stato proiettato, e che niente ha a che vedere con quelli che sono i "reali" bloopers di un film.”
Fonte: bloopers.it
Viste queste considerazioni, bloopers.it, che è per eccellenza l’archivio italiano degli errori cinematografici, non pubblica contributi in cui si citano errori di riprese con microfoni provenienti dall'alto. Per bloopers.it non sono bloopers. Punto.
Detto questo, a che conclusioni è giunta la sottoscritta riguardo al film in questione, Marie Antoinette: era fallata la regia o si è trattato semplicemente di un difetto di chi il film l’ha poi proiettato?
La seconda che ho detto. Credo. O almeno, se c’è stato concorso di colpa la mia bilancia pende a sfavore del cinematografo. Perché:
- Le giraffate non potevano essere volute, a mio parere (vedi punto 1). “Marie Antoinette” non è cinema verità e non vedo per quale motivo la Coppola in un film in costume peraltro avulso da intenti neorealisti dovesse strizzare l’occhio alla nouvelle vague.
- Allora le giraffate erano uno scivolone? Sinceramente, mi sembravano un po’ troppe per non essere state notate in fase di montaggio (vedi punto 4). E troppo fastidiose per essere un “piccolo difetto tecnico del film” (vedi punto 2).
- Credo proprio che al cinema abbiano sbagliato mascherina: e lo dico perché in un punto preciso del film un super, una scritta in sovraimpressione nella zona bassa dello schermo, era malamente tagliata.
Su un punto solo non mi esprimo: se la regista avesse dovuto prevedere casi di incuria della sua pellicola, come questi. Non ho conoscenze sufficienti per dirlo. In ogni caso, se così fosse, un giorno Sofia pagherà. Nell’oltretomba dei registi, Kubrick in persona tirerà alla Coppola una bella scoppola. E amen.
P.S.: Fate un salto su questo sito per consultare l’elenco delle sale cinematografiche da evitare. Il cinema di cui parlo io e in cui ho visto Marie Antoinette non c’è. Ancora.
Pensieri, parole, opere e omissioni di una scrittrice in erba,
una copywriter freelance in tempo di crisi, una spiantata trapiantata a Lecco.
Un giorno, “Giorno dopo giorno”.
Dove lo trascorre un tardo pomeriggio di un sabato solitario una giovane e solitaria emigrante del fine settimana costretta a Torino dal superlavoro?
In una solitaria, piccola e spartana saletta di un cinema del centro, fresca orfana dell’ampollosa presenza del signor Sgarbi e del di lui harem in corteo, ad assistere ad un film di nicchia del Torino Film Festival, circondata da pochi fortunati portatori di pass al collo, distintivo dell’intellettuale e motivo di suprema invidia. Mia. E di tutti coloro per i quali la cultura non può essere un lavoro.
Ma solo un hobby.
Masticando BigBabol e scarabocchiando al buio, mi chiedevo se la luce sarebbe riuscita a decifrare i miei deliri.
E, a quanto pare, luce fu. Luce su:
“Giorno dopo giorno”
Film-documentario
di Jean-Daniel Pollet e Jean-Paul Fargier
Francia, 2006, Digital Betacam, 65', col.
Il film raccoglie in ordine cronologico un anno di fotografie scattate da Pollet prima di morire. Cioè una settimana dopo aver concluso il montaggio. Ma “Giorno dopo giorno” non è un portfolio. Non è un testamento. È una sfida.
Pollet fu travolto da un treno nel 1989. Nel corso degli anni successivi, si aggravò e durante l’ideazione e realizzazione del film era praticamente ad un passo dalla fine. E lo sapeva. Il suo ultimo anno – quello del film - lo trascorse confinato nella sua fattoria, fotografando il pezzo di mondo che lo circondava. “La mia scommessa era vedere se sarei riuscito a sopravvivere più a lungo scattando fotografie giorno dopo giorno, non lasciandone passare neanche uno senza aver fatto almeno una foto.”
Insomma, Pollet voleva scoprire se le fotografie gli avrebbero allungato la vita. O giù di lì. Se il “clic clac” della sua macchina avrebbe battuto il “tic tac” dell’orologio che scandiva le sue giornate come una bomba ad orologeria. Istante contro tempo.
“Un viaggio lungo un anno”. Un viaggio col fucile puntato. Che tu, da spettatore, vorresti fermare ogni momento. Perché già sai che ogni foto è una frazione di tempo più vicina alla morte. E quasi vorresti impedire a Pollet di continuare nel suo tentativo disperato di congelare quegli attimi. Attimi in cui si susseguono le stagioni, i cieli, i fiori, diverse temperature dello stesso termometro, insomma tutte le cose mutabili, accanto a quelle sempre uguali a se stesse. I libri, le tazze, il bicchiere di vino, il gatto, e il cane sulla poltrona. E tu, anche tu sempre lì, morboso voyeur degli ultimi sguardi di un moribondo.
Il finale l’ho già svelato: il “clic clac” perde. E il “tic tac” si porta via Pollet. Che prima però esaudisce il suo ultimo desiderio del condannato. Questo film. Straziante, duro ma almeno eterno.
Bon voyage Monsieur Pollet. Merci.
In una solitaria, piccola e spartana saletta di un cinema del centro, fresca orfana dell’ampollosa presenza del signor Sgarbi e del di lui harem in corteo, ad assistere ad un film di nicchia del Torino Film Festival, circondata da pochi fortunati portatori di pass al collo, distintivo dell’intellettuale e motivo di suprema invidia. Mia. E di tutti coloro per i quali la cultura non può essere un lavoro.
Ma solo un hobby.
Masticando BigBabol e scarabocchiando al buio, mi chiedevo se la luce sarebbe riuscita a decifrare i miei deliri.
E, a quanto pare, luce fu. Luce su:
“Giorno dopo giorno”
Film-documentario
di Jean-Daniel Pollet e Jean-Paul Fargier
Francia, 2006, Digital Betacam, 65', col.
Il film raccoglie in ordine cronologico un anno di fotografie scattate da Pollet prima di morire. Cioè una settimana dopo aver concluso il montaggio. Ma “Giorno dopo giorno” non è un portfolio. Non è un testamento. È una sfida.
Pollet fu travolto da un treno nel 1989. Nel corso degli anni successivi, si aggravò e durante l’ideazione e realizzazione del film era praticamente ad un passo dalla fine. E lo sapeva. Il suo ultimo anno – quello del film - lo trascorse confinato nella sua fattoria, fotografando il pezzo di mondo che lo circondava. “La mia scommessa era vedere se sarei riuscito a sopravvivere più a lungo scattando fotografie giorno dopo giorno, non lasciandone passare neanche uno senza aver fatto almeno una foto.”
Insomma, Pollet voleva scoprire se le fotografie gli avrebbero allungato la vita. O giù di lì. Se il “clic clac” della sua macchina avrebbe battuto il “tic tac” dell’orologio che scandiva le sue giornate come una bomba ad orologeria. Istante contro tempo.
“Un viaggio lungo un anno”. Un viaggio col fucile puntato. Che tu, da spettatore, vorresti fermare ogni momento. Perché già sai che ogni foto è una frazione di tempo più vicina alla morte. E quasi vorresti impedire a Pollet di continuare nel suo tentativo disperato di congelare quegli attimi. Attimi in cui si susseguono le stagioni, i cieli, i fiori, diverse temperature dello stesso termometro, insomma tutte le cose mutabili, accanto a quelle sempre uguali a se stesse. I libri, le tazze, il bicchiere di vino, il gatto, e il cane sulla poltrona. E tu, anche tu sempre lì, morboso voyeur degli ultimi sguardi di un moribondo.
Il finale l’ho già svelato: il “clic clac” perde. E il “tic tac” si porta via Pollet. Che prima però esaudisce il suo ultimo desiderio del condannato. Questo film. Straziante, duro ma almeno eterno.
Bon voyage Monsieur Pollet. Merci.
Creature.
Scoop: sto scrivendo un nuovo libro. Per bambini. E ho chiesto a mia madre (che ad oggi è la più grande esperta di infanzia che conosca, visti i risultati) di redarre per me la cronostoria dei progressi evolutivi nel primissimo anno di vita. Lei ha risposto con la solita solerzia, inviandomi anche la Denastoria, che pubblico di seguito.
Denastoria:
- Fino a 4 mesi tutto nella norma: niente di eclatante da segnalare, magna e dorme.
- Il suo primo sorriso lo fa a mamma a 2 mesi.
- A 4 mesi inizia lo svezzamento, mangia la farinata con il cucchiaino.
- A 5 mesi fa i primi versi e dice acqu e ghele ghele.
- A 6 mesi dice papà mama e tatata. NdC: dice prima papà, questo è un omissis di mia madre.
- Primo dentino a 7 mesi.
- A 8 mesi le sue prime scarpine, di pelle bianca.
NdC: precoce anche nello styling.
- A 9 mesi ha 4 dentini, gattona e sta in piedi nel box;
ripete le parole che sente.
- A 10 mesi sta in piedi reggendosi con una mano.
NdC: equilibrismo? E mangia da sola la pappa con il cucchiaino.
- Nel giorno del suo 1° compleanno mette le scarpine per camminare e fa i suoi primi passi da sola. Mangia le stesse cose degli adulti.
NdC: per inciso, mangia pure la pasta e fagioli.
- A 13 mesi monta da sola sul divano.
E si fa il suo primo bernoccolo in fronte.
E qui, dopo quel bernoccolo in fronte, la Denastoria si interrompe. Come se il resto si spiegasse da sé.
Denastoria:
- Fino a 4 mesi tutto nella norma: niente di eclatante da segnalare, magna e dorme.
- Il suo primo sorriso lo fa a mamma a 2 mesi.
- A 4 mesi inizia lo svezzamento, mangia la farinata con il cucchiaino.
- A 5 mesi fa i primi versi e dice acqu e ghele ghele.
- A 6 mesi dice papà mama e tatata. NdC: dice prima papà, questo è un omissis di mia madre.
- Primo dentino a 7 mesi.
- A 8 mesi le sue prime scarpine, di pelle bianca.
NdC: precoce anche nello styling.
- A 9 mesi ha 4 dentini, gattona e sta in piedi nel box;
ripete le parole che sente.
- A 10 mesi sta in piedi reggendosi con una mano.
NdC: equilibrismo? E mangia da sola la pappa con il cucchiaino.
- Nel giorno del suo 1° compleanno mette le scarpine per camminare e fa i suoi primi passi da sola. Mangia le stesse cose degli adulti.
NdC: per inciso, mangia pure la pasta e fagioli.
- A 13 mesi monta da sola sul divano.
E si fa il suo primo bernoccolo in fronte.
E qui, dopo quel bernoccolo in fronte, la Denastoria si interrompe. Come se il resto si spiegasse da sé.
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